Corriere della Sera (Bergamo)

IL CARCERE E IL DECORO

- Di Davide Ferrario

Da vent’anni io sono, per il Ministero della Giustizia, un «articolo 17». In linguaggio comune, un volontario in carcere. Non c’è buonismo (né bontà…), in questo: credo che passare del tempo «dentro» dovrebbe far parte dell’educazione civica di ogni italiano. Giusto per capire cosa intendiamo davvero quando si parla di galera, in questo Paese: e se ne parla quasi sempre a sproposito. Il carcere assomiglia alla società che lo produce.

Nella mia esperienza, ci si trova così di fronte a situazioni opposte. Innanzitut­to, ci sono istituti in cui direttore e personale sono dei veri «eroi civili»: gente che fa funzionare una baracca senza speranza (e senza soldi) cercando di minimizzar­e il danno di un sistema che, così com’è, è un inutile spreco di risorse umane e di soldi pubblici.

Non dimentichi­amo che sopra di noi pende una condanna della Corte Europea proprio per lo stato delle patrie galere: condanna alla quale sono curioso di vedere come risponderà il nuovo governo, così fiero di alzare la voce contro Bruxelles. E poi ci sono carceri come quello di Bergamo, dove l’inchiesta conclusasi con l’arresto dell’ex direttore Porcino e di altri indagati ha scoperchia­to una situazione indecorosa. Intendiamo­ci: Porcino non è un sadico come certi personaggi da film americano, col ghigno malefico di un Donald Sutherland. La vita dei detenuti è grama, ma non in questi termini.

È molto più facile, invece, trasformar­e un luogo come via Gleno in un piccolo regno dove mettere a profitto un sistema di potere fatto di furberie, scambi di favori, intrallazz­i con gli appalti.

E di peculati di piccolo cabotaggio, come l’asportazio­ne di due water da sistemare in casa della moglie. Vien da ridere, lo so: ma poi quando entri nei cessi di un carcere e li trovi in condizioni che vi evito di descrivere, cominci a pensare che i discorsi sulla civiltà della pena non partono dai massimi sistemi, ma dalle piccole indegnità di ogni giorno.

Il carcere, com’è quasi sempre oggi in Italia, produce abbrutimen­to. Non solo dei detenuti, ma anche di chi ci lavora, come dimostra la rete di complicità di cui si sarebbe avvalso Porcino. Ecco perché questa dovrebbe essere l’occasione per un pensiero fuori dai luoghi comuni. Non si tratta di processare un direttore disonesto. Si tratta del rapporto tra carcere e città. Non a caso Porcino, negli ultimi anni, aveva progressiv­amente dismesso le attività dei volontari. Che via Gleno rimanesse così, un pianeta a parte: un luogo a cui, da sempre, Bergamo non ha sentito la necessità di dare nemmeno un nome.

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