Gli scherzi del dio del calcio e il mio cuore diviso a metà
LA LETTERA DI GIGI RIVA
Caro direttore, nessuno si diverte più del caso nel mettere in difficoltà gli umani. Le circostanze vogliono stavolta che si debbano affrontare le mie due squadre. Prevengo l’obiezione: so bene che nel calcio non si può essere scissi e che la passione prevede fedeltà assoluta, ma credo che l’originalità della mia situazione abbia il diritto alla concessione di una deroga. L’Atalanta è il latte della mamma, l’identità primigenia, la promessa dell’eterno ritorno al fanciullino. La mia professione mi ha però portato a Sarajevo, al tempo della guerra, per larga parte degli oltre mille giorni in cui la città fu assediata tra il 1992 e il 1995. Uno degli argomenti più gettonati, nelle lunghe sere di coprifuoco, era lo sport. La condivisione delle situazioni estreme espone l’anima, prima ancora del cuore, a un’empatia spontanea e immediata. La visceralità precede la ragione quando il dualismo è tra vivere o morire, mangiare o digiunare. In breve, l’F.K. Sarajevo è diventato parte del mio Pantheon. Aver conosciuto i suoi calciatori più rappresentativi è stata la spinta ulteriore al tifo per i bianco-bordeaux. Uno in particolare, Faruk Hadzibegic, capitano dell’ultima nazionale Jugoslava, alla cui vicenda umana ho dedicato un libro (“l’Ultimo rigore di Faruk”, Sellerio). Ma anche Safet Susic, capace di incantare gli spettatori dello stadio Kosevo con la sua “kicma” un movimento del corpo che parte dalla spina dorsale (“kicma”, appunto) col quale disorientava gli avversari prima del dribbling fino a farli cadere per terra. O almeno così vuole la leggenda. Se infine i miei natali sono bergamaschi, ho avuto l’onore di ricevere la cittadinanza onoraria della capitale bosniaca, pareggiando così l’anagrafe sul ponte dei miei affetti.
Certo non avrei mai pensato che i capricci del Dio del calcio mi avrebbero messo un
❞ Griderò Forza Atalanta e offrirò agli amici di Sarajevo una spalla su cui piangere
giorno davanti al dilemma. La nostra Atalanta raramente va in Europa (frequentemente speriamo d’ora in poi…), il Sarajevo vivacchia in un campionato minore non più jugoslavo e addirittura non riesce a primeggiare.
Persino quando all’orizzonte si è palesata la minaccia, c’erano altre due incognite da superare: che il Sarajevo passasse il terzo turno preliminare contro una squadra armena; che il Milan fosse riammesso nelle competizioni continentali dal Tas di Losanna. La mia propensione oscillava tra il desiderio che non si arrivasse al mio scontro fratricida e il suo opposto: vedere le mie squadre sullo stesso terreno di gioco per vincere in ogni caso.
Ora che l’ipotesi è diventata realtà, capisco che sarebbe stato meglio che questa partita non fosse mai stata programmata. Perché mi comporta l’onere di una scelta. Con profondo dispiacere per gli amici di Sarajevo che ancora oggi traggono dal calcio una piccola parte delle loro misere gioie, ma l’istinto primordiale prevale. Sarò a gridare Forza Atalanta. Offrendo però loro, con sincera adesione per il loro inevitabile cruccio, una spalla su cui piangere.