Con Morby attraverso l’America
Il cantautore texano porta stasera alla Triennale le canzoni di una vita «on the road»
È un viaggio onirico nell’America dei contrasti, tra grattacieli e motel abbandonati, tra highway trafficate e strade impolverate, quello intrapreso, con il più classico stile da folksinger con il cappello in testa, da Kevin Morby, nel suo ultimo album «City Music», disco che celebra l’estasi della vita on the road. «È una raccolta di dieci canzoni», spiega, «ispirata alla mia esperienza metropolitana negli States. È un sogno febbricitante, una lettera d’amore dedicata a quelle città di cui non posso liberarmi e sono tutte dentro di me». Un omaggio a tutti quei luoghi che hanno segnato i trent’anni di vita del cantautore texano: Detroit, Tulsa, Oklahoma City, Kansas City, Nashville, passando per New York e Los Angeles.
Tutte tappe necessarie nel viaggio continuo di questo artista errabondo. Prima bassista nei Woods, poi frontman dei The Babies e infine, nel 2013, l’inizio della carriera solista che, dopo soli tre album, lo pone tra gli interpreti più ispirati e autentici della scena folk e indie contemporanea, Morby, nel suo girovagare per il mondo, si ferma stasera al Giardino della Triennale (viale Alemagna 6, ore 21, e 28,75), per il «Tri.P Music Festival». Nato e cresciuto a Lubbock, città texana nel nord ovest del Lone Star State, prima di trasferirsi a 17 anni a Brooklyn per seguire la sua vocazione musicale, il songwriter statunitense ha abbracciato il nuovo filone del cantautorato a stelle e strisce, seguendo lo spirito dell’ultima fase del rock di Seattle dopo gli anni della sbornia grunge. Un urban-folk psichedelico dagli antichi sapori folk, ma aperto a nuove contaminazioni, con l’uso dilagante del low-fi, del racconto sofferto e cantato con voce baritonale. Un coast to coast musicale che taglia in due gli Stati Uniti e che passa dalla solitudine del deserto al caos urbano. I fantasmi di Bob Dylan (soprattutto in «Aboard my train») e Lou Reed (in «Pearly gates» e «Cry Baby») aleggiano ovunque. Sempre in tema di tributi c’è quello ai Germs, di cui propone un cover scarnificata della struggente ballad «Caught in my eye».