Ruggiti e falsetti
Robert Plant rinfresca il mito dei Led Zeppelin con brani eclettici, ritmi world e intenso lirismo
«ILed Zeppelin potrebbero riunirsi solo in una friggitoria a Camden Town». Proprio quando i fan erano tornati a sperare in una reunion del leggendario gruppo inglese in occasione del 50esimo anniversario, dopo lo scioglimento del «dirigibile del rock», avvenuto nel 1980 a seguito della morte del batterista John Bonham, Robert Plant con questa frase lapidaria, pronunciata in una recente intervista, ha stroncato sul nascere ogni ipotesi di rivedere insieme i tre superstiti della band. D’altronde c’è una grande differenza tra la voce di «Stairway to heaven», «Dazed and confused» e «Immigration song», e molte rockstar degli anni Settanta che hanno deciso di vivere di rendita. Come, ad esempio, il suo ex sodale Jimmy Page, impegnato a lucidare il catalogo storico dei Led Zeppelin, arricchito con la ristampa di «The Song remains the same» per celebrare il mezzo secolo.
Il 69nne cantante inglese dalla voce inconfondibile, frontman di una band che ha contribuito a scrivere la storia del rock, diversamente da altri illustri colleghi è sempre in viaggio per il mondo con lo zelo infaticabile dell’esploratore di suoni e di culture. L’innovativa impostazione del suo canto, oscillante dal singulto dolce e soffuso a vere e proprie urla, viranti dal furore orgasmico al lacerante strazio emotivo, ha introdotto il vocalizzo estremo quale elemento, oggi imprescindibile, dell’heavy metal. Per questo motivo Plant è considerato capostipite di quelli che dopo di lui sarebbero stati definiti come cantanti urlatori. Dal 1982, a dispetto dell’evidente abbassamento del suo timbro vocale, si è dedicato con alterne fortune alla carriera solista, riprendendo e ampliando molti dei generi su cui era fondata la complessa alchimia musicale dei Led Zeppelin come il blues, il folk, la musica araba e le tematiche mitologiche, in particolar modo quelle celtiche.
Così, Plant, lasciati Page e John Paul Jones al loro destino, torna in Italia con i Sensational Space Shifters, la band che da anni lo accompagna durante le sue tournée dal vivo, e fa tappa stasera all’Ippodromo per presentare il suo ultimo album pubblicato nell’ottobre 2017, dal titolo «Carry Fire», il risultato del lavoro meticoloso di un artista che non rinnega l’illustre passato ma che ha deciso di non vivere di sola nostalgia. Un disco che è la celebrazione dell’incontro virtuoso tra mondi musicali lontani, a volte lontanissimi. Dalla poliritmia africana alle tradizioni celtiche, passando per Nashville, il blues, il folk e la trance. «Parte tutto dall’intenzione di creare sempre nuovo materiale, pur continuando ad amare e rispettare ciò che ho fatto in passato — sottolinea —. Mi piace ogni volta mescolare “il vecchio” col “nuovo”. Di conseguenza, l’intero impeto della band si è spostato e il nuovo suono lascia terreno a drammatici ed eccitanti paesaggi emotivi, melodici e strumentali». Quello di Plant è un ottimo esempio di «musica globale», che funziona grazie al carisma del band leader e alla poliedrica flessibilità dei Sensational, un gruppo versatile di musicisti che tiene fede al suo nome impegnativo ricomponendo in sostanza il nucleo storico degli Strange Sensation intorno alla figura chiave di Justin Adams, chitarrista rockabilly e cultore del blues africano del deserto che dell’ex Led Zeppelin è da anni il fedele braccio destro. Significativo che siano tutti i musicisti a firmare i pezzi, e che Plant invece di ruggire come ai vecchi tempi, con le sue corde vocali sussurra, impennandosi in morbidi falsetti e acuti di intenso lirismo.
Reunion «Oggi la band inglese potrebbe riunirsi solo in una friggitoria di Camden Town»