UNA SQUADRA SEMPRE PIÙ STRANIERA NECESSARIO, PER CERTI RISULTATI
Il cambiamento Al massimo quattro italiani in campo, anche per un club molto «local»
Inizia il terzo anno dell’Era di Gian Piero Gasperini all’Atalanta. Il tifoso, devotamente, aspetta l’ennesimo miracolo; anche se già nel Vangelo si può notare un curioso fenomeno. Mentre i primi miracoli sono accolti con meraviglia, stupore e riconoscenza, più il tempo passa più i miracoli tendono ad essere attesi da discepoli, apostoli e perfino da Maria come una specie di atto dovuto. «È morto Lazzaro, fai risorgere Lazzaro»; «È finito il vino, Gesù inventati qualcosa…».
Absit iniuria verbis: qualcosa del genere è ciò che ha mandato fuori dai gangheri il nostro profeta Gasperini il giorno prima di Ferragosto, quando ha detto: «Per il prossimo miracolo, cercatevi qualcun altro».
Il tifoso atalantino entra così in questa nuova stagione con l’animo forte ma dubbioso. Al momento c’è da sottolineare un fatto concreto e oggettivo. Ecco la formazione schierata contro il Sarajevo per nazionalità (incluse le sostituzioni): Albania, Brasile (Belgio), Argentina, Italia, Olanda, Svizzera (Italia), Olanda (Colombia), Germania, Italia, Gambia, Argentina.
Nella versione «soft» di giovedì scorso, invece, l’Atalanta era schierata così: Italia, Italia, Albania, Italia, Belgio, Italia, Svizzera, Polonia, Croazia, Argentina (Gambia), Colombia (Danimarca).
Aggiungiamoci la Slovenia di Ilicic, nonché l’Argentina e l’Iraq dei due nuovi acquisti Rigoni e Ali Adnan e sorge spontanea una domanda: che ne è stato dell’Atalanta legBarrow gendaria culla dei nuovi talenti nazionali? (E anche: ma nella sede di Zingonia ce l’hanno un buon ufficio interpreti?).
Ci ritroviamo con una squadra multietnica che nemmeno sull’altro fronte nero e azzurro, quello di Milano: ma in quel caso, almeno, si chiamano programmaticamente Internazionale. Il fatto è che se guardi la formazione della Primavera atalantina, scopri che nemmeno lì siamo messi tanto diversamente: Musa a parte, ecco Nivokazi, Traoré, Kulusevski, Colley, Zortea, Guth, Heidenreich… Perfino Piccirillo è mezzo ucraino.
È curioso che in epoca di sovranismi e autarchie proprio un club «territoriale» come l’Atalanta esprima un profilo che è tutto il contrario. Ma forse anche stavolta il calcio è metafora sociale. Se davvero l’Atalanta vuole stare dove tutti speriamo stia, dimentichiamo le favole. A cinquant’anni dal ’68, ribaltiamo uno dei suoi slogan più celebri: «Esigiamo l’impossibile, quindi: siamo realisti». Il calendario ci propone subito un bel bivio: Frosinone e Copenhagen. La provincia e l’Europa. Sappiamo tutti dove ci piace stare.