Corriere della Sera (Bergamo)

UNA SQUADRA SEMPRE PIÙ STRANIERA NECESSARIO, PER CERTI RISULTATI

- di Davide Ferrario

Il cambiament­o Al massimo quattro italiani in campo, anche per un club molto «local»

Inizia il terzo anno dell’Era di Gian Piero Gasperini all’Atalanta. Il tifoso, devotament­e, aspetta l’ennesimo miracolo; anche se già nel Vangelo si può notare un curioso fenomeno. Mentre i primi miracoli sono accolti con meraviglia, stupore e riconoscen­za, più il tempo passa più i miracoli tendono ad essere attesi da discepoli, apostoli e perfino da Maria come una specie di atto dovuto. «È morto Lazzaro, fai risorgere Lazzaro»; «È finito il vino, Gesù inventati qualcosa…».

Absit iniuria verbis: qualcosa del genere è ciò che ha mandato fuori dai gangheri il nostro profeta Gasperini il giorno prima di Ferragosto, quando ha detto: «Per il prossimo miracolo, cercatevi qualcun altro».

Il tifoso atalantino entra così in questa nuova stagione con l’animo forte ma dubbioso. Al momento c’è da sottolinea­re un fatto concreto e oggettivo. Ecco la formazione schierata contro il Sarajevo per nazionalit­à (incluse le sostituzio­ni): Albania, Brasile (Belgio), Argentina, Italia, Olanda, Svizzera (Italia), Olanda (Colombia), Germania, Italia, Gambia, Argentina.

Nella versione «soft» di giovedì scorso, invece, l’Atalanta era schierata così: Italia, Italia, Albania, Italia, Belgio, Italia, Svizzera, Polonia, Croazia, Argentina (Gambia), Colombia (Danimarca).

Aggiungiam­oci la Slovenia di Ilicic, nonché l’Argentina e l’Iraq dei due nuovi acquisti Rigoni e Ali Adnan e sorge spontanea una domanda: che ne è stato dell’Atalanta legBarrow gendaria culla dei nuovi talenti nazionali? (E anche: ma nella sede di Zingonia ce l’hanno un buon ufficio interpreti?).

Ci ritroviamo con una squadra multietnic­a che nemmeno sull’altro fronte nero e azzurro, quello di Milano: ma in quel caso, almeno, si chiamano programmat­icamente Internazio­nale. Il fatto è che se guardi la formazione della Primavera atalantina, scopri che nemmeno lì siamo messi tanto diversamen­te: Musa a parte, ecco Nivokazi, Traoré, Kulusevski, Colley, Zortea, Guth, Heidenreic­h… Perfino Piccirillo è mezzo ucraino.

È curioso che in epoca di sovranismi e autarchie proprio un club «territoria­le» come l’Atalanta esprima un profilo che è tutto il contrario. Ma forse anche stavolta il calcio è metafora sociale. Se davvero l’Atalanta vuole stare dove tutti speriamo stia, dimentichi­amo le favole. A cinquant’anni dal ’68, ribaltiamo uno dei suoi slogan più celebri: «Esigiamo l’impossibil­e, quindi: siamo realisti». Il calendario ci propone subito un bel bivio: Frosinone e Copenhagen. La provincia e l’Europa. Sappiamo tutti dove ci piace stare.

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In campo Cornelius, Barrow e Pasalic, tre atalantini di nazionalit­à straniera, come tanti altri compagni

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