Impermanente: viaggio nella storia delle collezioni
Il direttore Lorenzo Giusti: «Impermanente #1 è l’incipit della saga che fa riscoprire la galleria»
Ènata sotto il segno dei pesci la nuova direzione della Gamec. Non uno qualsiasi, ma un «Delfino», realizzato dall’artista Pino Pascali. È un lascito dell’architetto milanese Tito Spini. Vita divisa tra Resistenza e architettura, Bergamo e Roma, Spini è uno dei collezionisti la cui storia è raccontata nelle opere esposte al secondo piano della galleria. Primo capitolo di una narrazione fatta di passione per l’arte, mecenatismo e donazioni alla città e che il nuovo direttore del museo, Lorenzo Giusti, sta riscrivendo insieme ai suoi collaboratori. Fonte di ispirazione le opere della collezione permanente, ora smantellata e trasformata in «Impermanente», con nuovi allestimenti ed esposizione di dipinti, foto, sculture e video conservati nei depositi da anni o di lasciti recenti. Tra questi il cetaceo realizzato da uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera, entrato nella collezione quest’anno ed esposto per la prima volta, visibile tutta l’estate e sino a oggi.
«Quando arrivai a giugno in Gamec, ricevetti la proposta di donazione del Delfino. La lessi come un buon segno», sorride Giusti. La sua visione di museo è sintetizzabile nel motto «perma niente», scritto sulle pareti dall’artista rumeno Dan Perjovschi per un intervento site-specific, chiesto per «riflettere sulla doppia crisi del modello museale tradizionale, fondato sulle collezioni o sulla spettacolarizzazione con la creazione di eventi», dice il direttore, la cui volontà è ridefinire il museo tra questi due poli. I segni di cambiamento sono visibili dall’ingresso: atrio arioso, senza macchinetta del caffè; opere subito in vista, come la «157.000.000», la cassaforte svaligiata di Maurizio Cattelan eseguita per «Ottovolante», la prima mostra fatta in galleria nel 1992. E poi la Collezione permanente, con le sue 3 mila donazioni, tra dipinti, sculture, opere grafiche, foto, video, installazioni, medaglie, diventata «Impermanente». Non più un allestimento stabile, con una sessantina di pezzi esposti, ma mostre temporanee al secondo piano. «La Collezione Impermanente #1 è l’incipit di una saga che ci autorappresenta per raccontare
l’anima della galleria, che è una collezione di collezioni. In questo primo capitolo se ne spiega l’evoluzione dall’origine all’oggi», prosegue Giusti. Accanto al volto femminile, un grande cartone di Mario Sironi, preparatorio per l’affresco dell’Aula Magna della Sapienza, donato nel 1993 dall’imprenditore Giovanni Pandini. Nella parete vicina due dipinti di Lucio Fontana, il «Concetto spaziale» del 1965 e una «Figura di donna», lasciati dall’avvo-
cato Davide Cugini nel 1987. Colpisce la parete di foto in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin, Mario Dondero, Ugo Mulas, per citare alcuni degli autori delle oltre 600 immagini del fondo Lanfranco Colombo. Le curatrici Valentina Gervasoni e Fabrizia Previtali ne hanno selezionate una trentina, quelle con dedica. Esporle è una novità. «Il fondo non usciva dai depositi dagli anni ‘90 — dice Previtali —. Metterle nella prima sala è un manifesto di intenti: mostra la varietà di materiale della collezione, grazie ai lasciti, che hanno orientato e permesso la costituzione del museo. Con il progetto Impermanente si svelano i volti del collezionismo, si espongono opere da tempo non visibili e si raccontano nuove storie. Perché anche gli stessi dipinti acquistano significati diversi a seconda degli allestimenti». Nella sala 7 si ritrova la dimensione domestica del donatore: disposti come nel salotto di casa, ecco i dipinti della collezione Spajani e Stucchi. Ed è come avere davanti agli occhi un libro di storia dell’arte aperto a doppia pagina: opere di Aligi Sassu, Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Felice Casorati... A chiudere il primo capitolo della storia Gamec, l’opera di Remco Torenbosch. «Raffigura la bandiera dell’Europa priva delle sue stelle — conclude Giusti —. Ci parla di noi. Ci interroga sul nostro tempo e contemporaneità, come una collezione di opere storiche parla dell’oggi». E continuerà a farlo nel 2019. Arrivederci «impermanente».