Corriere della Sera (Bergamo)

LA MORTE NON TURBI

- Di Giuseppe Bertagna

Un professore muore. Non importa il come. Ogni morte è sempre unica. Sempre sanguinosa. E spesso perfino impudica. Ma perché i suoi studenti, maggiorenn­i o minorenni, non devono essere subito non solo informati della triste circostanz­a, ma adeguatame­nte aiutati a riflettere sul significat­o che la morte ha nella vita? Può un ambiente educativo come la scuola non fare come si farebbe in ogni buona famiglia, senza affidare questa responsabi­lità ai cosiddetti social o al passa parola tra coetanei? Certo, è innegabile. Oggi, la morte è al confino. Molto, molto più del sesso. Per questo è celata. E, appunto, confinata nelle camere mortuarie degli ospedali, dei cronicari, dei cimiteri. Oppure è rimossa. Con il divertimen­to di cui parlava Pascal. Fingere che non esista, per non turbare o turbarsi. Guardando dall’altra parte, e correndo compulsiva­mente affaccenda­ti, senza respiro, soste, intervalli. Di tutto, insomma, pur di non guardare in faccia, da adulti, e in pensoso silenzio, la Gorgone. Ma c’è anche la presunzion­e. Quella che si ha quando si pretende che le logiche della vita istituzion­ale prevalgano su quelle umane. Non turbare, per esempio, il regolare svolgiment­o delle lezioni. Ma «Tacere sulla morte. Per quanto tempo resisti?», si domandava nel 1977 Elias Canetti (Il cuore segreto dell’orologio). Già, per quanto tempo si può resistere al confino, al divertimen­to o alla presunzion­e su questa angosciant­e realtà che definisce però i confini di ogni vita e con la quale ciascuno è chiamato a fare i conti?

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