VECCHIONI, CHE REGALO ALLA CITTÀ
Non ha nemmeno un fazzoletto a portata di mano, la professoressa Mara Bergamaschi. In prima fila sul palco di Piazza Vecchia, sugli ultimi versi di «Sogna ragazzo, sogna» cantata da Roberto Vecchioni, si strofina gli occhi, ricacciando indietro le lacrime con le mani. Forse neanche lei, prorettrice alla finanza dell’Università di Bergamo, bocconiana, tutta scienza economica e metodi quantitativi in cattedra, pensava di dover fare i conti con l’emozione che, per il Graduation Day, alla fine ha preso un po’ tutti. Quasi di sorpresa. Perché se era scontato pensare che la commozione fosse appannaggio dei neodottori e delle loro famiglie, non altrettanto lo era per una Bergamo che ha riconosciuto, o forse conosciuto per la prima volta da vicino, sotto il Campanone, la sua Università. L’ostinazione, la caparbietà con cui il rettore, Remo Morzenti Pellegrini, ha voluto per il Cinquantenario del suo Ateneo una cerimonia così unica, si sono tradotte alla fine in un vero regalo alla città. Oltre l’innegabile effetto scenografico, con i tocchi lanciati al cielo, l’immagine e la realtà accademica si sono unite, irripetibilmente, in un tutt’uno con la Piazza che è il cuore stesso di Bergamo, rivelandone l’essenza osmotica, in un intreccio di saperi e di luoghi che prosegue e si cementa da mezzo secolo. Quando nasceva l’Università di Bergamo, nel 1968, anche l’ospite d’onore, Roberto Vecchioni, cominciava la sua carriera di insegnante.
Si può salire in cattedra in tanti modi, ma per l’occasione il professor Vecchioni ha scelto il modo più difficile e diretto allo stesso tempo. Parlando ai cuori senza età, alzandosi in volo sulla Storia come un drone leggero e richiamando dai secoli la presenza immortale degli uomini e dei loro sentimenti. Sia che, come nel caso di Marco Aurelio Antonino, si trattasse di un imperatore alle prese con i seccatori e i denigratori di ogni giorno, ma da trattare con regale pazienza. Sia che, come Eschilo, con l’animo del poeta, ci si trovi a seguire sempre i venti del cuore, in una motilità di sentimenti capace di attraversare bufere o navigare di brezze marine. Sempre avendo chiaro che, come è in grado di «nascondere e annientare tutto il male e il dolore del mondo», così «l’Amore è la parola e il fine ultimo di ogni giornata e di ogni vita». La metafora della nave, con i porti che si svuotano e riempiono di volti e uomini, con i tecnicismi imparati (a scuola) delle vele da issare o dei motori da avviare, con l’amato da baciare al termine delle fatiche quotidiane, invita tutta la piazza a ripensare e rivalutare pezzi della propria storia personale. È un richiamo forte anche ai docenti e alla loro missione. «Bisognerebbe fermarsi un attimo sulla porta di un’aula, prima di entrare, e pensare di distruggersi di fatica in quelle ore di insegnamento per trasmettere la bellezza delle cose in cui si deve credere». Insegnare a guardare le stelle e invitare a sognare. Vale per tutti. C’è sempre un foglio sulla scrivania, come nella canzone, a cui manca un verso. Se questo foglio lo ha lasciato l’Università, con la cerimonia di domenica, ad ogni ragazzo neo laureato il messaggio è arrivato chiaro: «Quella poesia, puoi finirla tu».