Le ragazze del Sessantotto
Realizzazione intellettuale, impegno, sesso libero e pantaloni a zampa Venti signore milanesi raccontano la loro stagione di emancipazione
«Mia madre non mi ha permesso di frequentare il liceo Berchet o il Parini perché le classi sono miste… Mia madre non è contenta che io voglia fare l’università, dice che “non serve per sposarsi e fare bambini”»: è il ricordo di Franca Pizzini — autrice di libri di sociologia e di storia — a proposito della sua giovinezza milanese, anzi a proposito del suo ’68. E assomiglia molto ai ricordi di altre venti milanesi che si sono ritrovate per raccogliere la loro esperienza su quell’anno fatale in un libro che si intitola appunto «Ragazze nel ‘68». Tutte sono state coinvolte nel movimento studentesco, tutte hanno abbandonato la gonna scozzese coi golfini gemelli per la minigonna e i pantaloni a zampa di elefante, hanno lasciato l’appartamento di famiglia per andare a «occupare» e a vivere nelle «comuni» e, liberandosi del divieto più radicato nella loro educazione, hanno fatto sesso coi loro compagni.
«Dormo poco, mangio in modo irregolare, faccio l’amore a destra e a manca… Sono più sbandata che libera», scrive Donatella Barazzetti, oggi professoressa di sociologia all’Università di Calabria. «Ero una ragazza per bene, appartenente a una famiglia ebrea», racconta Nicoletta Gandus, giudice, attiva nel Collettivo donne e diritto di Milano: «Sono nata nel 1949 e tutto, ma proprio tutto, è cambiato nella mia vita fra il 1968 e il 1969: Il Movimento, l’impegno nel mondo ebraico del dissenso, il teatro in un gruppo ispirato all’Odin Theatre, ma l’accento sull’essere donna non lo mettevo mai, ci sarebbe voluto del tempo». Altre ricordano che nelle assemblee facevano la maglia senza pensare che potevano essere assimilate alle tricoteuses della rivoluzione francese. Silvia Motta — consulente aziendale nell’ambito della creatività — arriva a Milano dopo la laurea in sociologia a Trento. Lei è nata a Sondrio in una famiglia con nove figli: «Per me vedevo una vita diversa da mia madre, stentavo a immaginarmi con una famiglia, anzi non volevo neanche pensarci». Trento, la piccola città della libertà che culla i suoi studenti, l’«occupazione» che dura tre mesi, una comune tutta femminile in un palazzo del centro fondata dopo aver lasciato il collegio delle Dame di Sion e addirittura aiutate da loro ad arredarla. Eppure, ricorda, «pochissime ragazze prendevano la parola in assemblea e non influivano su quella che chiamavamo la “linea politica” del movimento. Lavoravamo molto, studiavamo molto, volantinavamo molto, ma alla fine eravamo ancillari». E ancora, tra le altre, la professoressa di greco Vittoria Longoni ricorda le cinque occupazioni dell’Università Cattolica: «la mia vita si è improvvisamente aperta e per certi aspetti rovesciata. Di colpo una socialità intensa e quasi frenetica, l’adesione alla contestazione in tutte le sue forme, le assemblee, i collettivi, i controcorsi, le occupazioni e gli sgomberi forzati».
Diventano pagine di Storia gli scritti di vita quotidiana e concreta di queste ragazze milanesi privilegiate: per loro la lotta contro l’autoritarismo familiare passa attraverso l’esperienza viva dell’università che ha permesso scelte di vita assolutamente impensabili nella società da cui provenivano. E per tutte il ‘68 è stato la base del passaggio al movimento femminista degli anni Settanta e a un impegno che continua ancora oggi.
(via Cadore 33, ore 19, ingresso gratuito con pren. su semlibri.com/event/). Siamo nel 1953, Mario Arrigoni resta sempre a capo del commissariato di Porta Venezia, come nei libri precedenti, ma stavolta deve lasciare Milano per guidare un’unità speciale di poliziotti e carabinieri per indagare sugli omicidi commessi nei piccoli paesi della Lombardia. E ad Arbizzano Varesino, in cui «l’economia locale è molto legata alla vicinissima Svizzera… in modo lecito e illecito» un cercatore di funghi ha trovato nel bosco un cadavere. La vittima, ufficialmente imprenditore edile, in realtà ha molto a che fare con il contrabbando e con lo strozzinaggio. E ha una moglie molto più giovane di lui. Arrigoni si installa (con il fido brigadiere Di Pasquale) alla Locanda del Cervo: la tristezza per la lontananza, seppur temporanea, dalla sua città e dalla famiglia, viene stemperata dalla buona cucina dell’albergo. I (tanti) fedelissimi di Crapanzano e di Arrigoni stiano tranquilli: anche in trasferta il commissario se la cava benissimo.