MASSIMO, GUARDA CASO
Ignoto 1, per la Giustizia italiana, è Massimo Bossetti. Ieri sera la Cassazione ha confermato l’ergastolo mettendo la parola fine al caso giudiziario che ha diviso l’Italia. Dunque è lui che uccise Yara Gambirasio, la sera del 26 novembre 2010, nonostante si fosse sempre dichiarato innocente e vittima di un’insondabile macchinazione, mentre i genitori della ragazzina, in silenzio, invocavano la verità. Supponiamo pure, per un attimo, di volere credere al muratore di Mapello che i colleghi soprannominavano «il favola». Se non è stato lui, potrebbe finalmente dire chi è stato e spiegare cosa ci facesse lui, insieme all’assassino, sul luogo del delitto. Perché Bossetti era proprio lì mentre la ginnasta tredicenne di Brembate Sopra veniva aggredita a coltellate, prima di essere lasciata agonizzante in un campo incolto a Chignolo d’Isola. Lo dice, con certezza, quella macchiolina di Dna trovata per miracolo su un cadavere rimasto per tre mesi fra le erbacce. Una traccia genetica che contiene, mischiati, il sangue di Yara e il Dna di Bossetti. Nessuno può avercelo messo a posteriori, se non lui al momento dell’omicidio.
A tutto si può credere, dunque, fuorché al Grande Complotto, secondo il quale si è preso a caso un capro espiatorio, come in una folle e cinica lotteria. Non è così, con buona pace degli innocentisti social, e la riprova sta nel fatto che il Dna trovato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo sugli slip e i leggings di Yara era inizialmente di un signor nessuno.
Tant’è che venne chiamato, appunto, Ignoto 1. Per risalire a chi appartenesse, biologi e investigatori, guidati dalla caparbietà del pm Letizia Ruggeri, iniziarono un viaggio incerto, tanto avventuroso quanto incredibile, per raggiungere una meta che pareva stregata, in bilico tra le ultime frontiere della scienza e le storie più recondite di amori e tradimenti nella profonda Val Seriana. Un percorso che ha superato la più fervida immaginazione di un giallista, fino ad approdare, di prelievo in prelievo, al match perfetto con il Dna di Massimo Bossetti. Che, guarda caso, è un muratore (nei polmoni di Yara vennero trovare tracce di materiale edile). Che, guarda caso, ha un furgone (diciamo similissimo, ma potremmo dire identico, a quello inquadrato da diverse telecamere intorno all’ora della sparizione di Yara dalla palestra). Che ancora, guarda caso, agganciava con il suo telefonino una cella compatibile con il delitto. Che infine, guarda caso, non ha un alibi. Per questo la moglie Marita, durante un colloquio in cella registrato dalle microspie, mise alle corde il marito, come solo una donna sa fare quando è sospettosa. Ma Bossetti niente, non ricorda proprio. Prima e dopo sì, ma l’ora X no. Guarda caso. È vero che il procedimento contro Bossetti resta un processo indiziario, ma la mole di lavoro investigativo, le risultanze scientifiche e le dichiarazioni dello stesso indiziato, mettono al riparo dall’errore giudiziario paventato dalle difese (che ieri sera, detto per inciso, hanno avuto l’ardire di attaccare «il processo mediatico»). Gli inquirenti, per non lasciare nulla di intentato, hanno verificato persino le segnalazioni di mitomani e sensitive. Alla fine è rimasto intatto il pilastro del Dna. Il processo, in fondo, era tutto qui. E la scienza ci ha ricordato che la probabilità di trovare un altro Dna nucleare uguale a quello di Bossetti è di una su 330 milioni di miliardi di pianeti, ciascuno abitato da 7 miliardi di persone.