Il padre imputato tra freddezza e scatti d’ira in aula
Gli atteggiamenti contrastanti e gli appelli del carpentiere
Bossetti non è quello che sembra, scrivono i giudici. Chi lo ha seguito in questi anni nel corso dei processi ha visto un padre di famiglia freddo, misurato, ma con improvvise esplosioni in aula di fronte ad alcune accuse di carattere sessuale. Ed era stato lui a gridare: «Non sono quello che descrivete».
Cicca in bocca, un’occhiataccia alla pm, un cenno con la testa e uno con la mano per salutare il pubblico amico, quello che gli scrive e lo sostiene anche via Facebook, la stretta di mano agli avvocati. Massimo Bossetti è sempre stato così, in udienza a Bergamo. Chi è, l’ha voluto dire con delle dichiarazioni spontanee alla Corte d’Assise e, in appello, a quella di Brescia. A volte ha accennato un ghigno di disapprovazione per le parole dell’accusa o degli avvocati di parte civile. Ma è sempre stato controllato, quieto. Salvo qualche eccezione. La prima volta l’imputato sbottò durante la testimonianza di un artigiano che aveva lavorato con lui. «Bossetti raccontò che voleva suicidarsi per problemi con la moglie». Lui si alzò in piedi: «Non è vero niente». Un’altra, quando la moglie Marita finì sotto torchio, a proposito delle ricerche pornografiche in Internet. Un’altra ancora, stesso scatto, quando l’avvocato Enrico Pelillo, per i Gambirasio, parlò di movente sessuale.
«Non sono quello che descrivete», ha sempre ripetuto. L’autobiografia al processo racconta di un uomo che conobbe la sua bella moglie da giovanissimo, al fiume a prendere il sole. Un colpo di fulmine, poi il sogno realizzato del matrimonio, nel 1999. Di un papà che, con la calce sulle mani e la schiena dolorante, prima di tornare a casa dai cantieri si fermava a prendere le figurine per i figli: il maschio, 13 anni (l’età di Yara) al momento dell’arresto del papà, il 16 giugno 2014, e le due bambine più piccole.
I colleghi che lo chiamavano «il Favola» per le bugie sul lavoro e gli edicolanti che non se lo ricordano, sostiene Bossetti, hanno mentito. Lui è l’imputato che ha continuato a chiedere, anche in Cassazione, la perizia sul Dna. «Sarei un pazzo a farlo sapendo di essere colpevole». Giura di non aver mai incontrato Yara, di non essere il suo assassino. Lui e i suoi avvocati ripetono che questo è un clamoroso errore giudiziario.
Un altro Bossetti rispetto all’uomo inchiodato allo schienale della sedia, tesissimo, con gli occhi puntati sull’avvocato Andrea Pezzotta, sempre per i Gambirasio, che sul finale di un’arringa incisiva in primo grado tentò la carta emotiva. «Bossetti, si liberi la coscienza — lo invitò a confessare —. Questo per noi sarebbe il miglior risarcimento». Lui rimase di pietra, poi si voltò verso i consulenti come per cercare sostegno. Ci pensò uno dei suoi avvocati, Paolo Camporini: «Massimo non confessare nulla, perché sei innocente».
Allora chi è Massimo Bossetti? Non significa certo essere un assassino, ma è un uomo che all’appuntamento con il processo in Corte d’Assise si è presentato super abbronzato. «Gli basta poco per scurirsi, che cosa deve fare tutto il giorno in carcere?», l’obiezione dei suoi difensori. Sarà un dettaglio, ma nelle indagini erano già state citate le sue sedute abbronzanti a Brembate Sopra. È anche l’uomo che, sotto accusa per le ricerche pornografiche in Internet, in carcere scrive lettere hot a una detenuta mai conosciuta, addentrandosi in dettagli corrispondenti ad alcune delle parole chiave cercate online da casa (che lui nega e la difesa ritiene il risultato di automatismi).
Bossetti non è quello che dice di essere, scrivono i giudici. È un uomo «dall’animo malvagio», secondo la Corte di primo grado. È chiaro dalle sevizie e dalla crudeltà con cui si è accanito su Yara, nel campo di Chignolo: «Non ha agito in modo incontrollato», ha girato il corpo, alzato i vestiti, ferito ancora, quando la bambina era ancora viva. I giudici hanno riconosciuto la sua vita regolare fatta di casa, famiglia, lavoro, spesa al supermercato e incensuratezza. Ma le «uniche circostanze di segno positivo», in termini di calcolo della pena, non hanno retto rispetto alla gravità del delitto. Sia i giudici di primo che di secondo grado si sono spinti fin dove lo stesso pm non aveva azzardato, sul movente sessuale, per via del reggiseno della vittima slacciato e il taglio in corrispondenza degli slip. Avance respinte, è «verosimile».
La sentenza della Corte d’appello sul punto è più pesante: «Deve ritenersi provato un insistente interesse dell’imputato per le giovinette», per le ricerche online. Quel giorno, dice la sentenza, l’uscita di adolescenti dalla palestra deve essere stato un richiamo per lui. E anche la sua vita rimasta sempre uguale a se stessa, che secondo la difesa racconta l’uomo della porta accanto, per i giudici pesa contro Bossetti. Significa che dopo aver ucciso ha proseguito come se nulla fosse. Così come «con indifferenza e grande normalità» dal carcere si è curato del clamore mediatico suscitato dal suo caso. «Non è certo l’atteggiamento — hanno scritto i giudici — di chi è disperato». Anzi, continuando a negare, ha «sfidato gli inquirenti».
L’atteggiamento Contro un collega che lo accusava di mentire e sulle riviste porno, è sbottato subito