L’«operaia» ha dichiarato di aver intuito «qualcosa» sugli affari del marito. L’accusa: sapeva tutto e ne parlava
I 9 milioni e le mezze ammissioni, smentite al telefono
Interrogata il 14 giugno Carmen Testa, di Arcene — l’«operaia» con 7 milioni su un conto a Lugano e altri due soprattutto in beni immobili —, aveva tentato di restare in equilibrio, spiegando che in passato aveva intuito gli affari non proprio puliti del marito Giuseppe Pio Previtali, morto a 50 anni nel 2007. Ma senza sapere che tipo di reati avesse commesso e con quali eventuali complici. E il tipo di reati è il discrimine di tutta la vicenda, perché la voluntary disclosure (e cioè la dichiarazione al Fisco di una disponibilità di beni o denaro nascosti) consente di regolarizzarsi solo se all’origine di certe risorse c’è l’evasione fiscale. Non altro. Secondo la Procura, ma poi anche per il gip e il Riesame, c’era una bancarotta da 30 miliardi di lire, a monte di tutto.
«In quell’interrogatorio — scrive il gip Maria Luisa Maz- zola nell’ordinanza di sequestro del tesoretto — Testa dichiarava, contrariamente al vero, di non conoscere i coindagati del marito e nemmeno le società coinvolte, ma era emerso altro dalle intercettazioni telefoniche. L’indagata dichiarava inoltre di essere consapevole che il marito, che svolgeva il lavoro di muratore cottimista, non poteva aver accumulato somme così ingenti, se non mediante la commissione di reati. Dichiarava che il marito le faceva firmare ogni anno moduli bancari necessari al versamento delle somme presso la banca svizzera, dove lei stessa si era recata in alcune occasioni, nel periodo tra il 1991 e il 1998, compatibile con le date di commissione dei reati».
Mezze ammissioni, secondo l’ipotesi dell’accusa, per non giocare la parte della persona totalmente ignara sui metodi con cui quella fortuna in Svizzera era stata accumulata. Ma al momento dell’interrogatorio gli inquirenti sapevano già altro. La sera prima dopo le 22 l’indagata per riciclaggio era al telefono con il compagno Rodolfo Arpa (ex carabiniere del gruppo bergamasco del Ros, finito in una bufera giudiziaria poi terminata in prescrizione, con il generale Gianpaolo Ganzer): «C’è scritto sul faldone che m’aveva dato indietro l’avvocato... — diceva la donna — anche io avevo la richiesta di carcerazione». «A dimostrazione del fatto — commenta il gip — che era consapevole dell’attività illecita, conosceva i soggetti e le società coinvolte». Si è materializzato anche in questi passaggi un sequestro inedito per l’Italia, passato dallo studio di un caso di voluntary disclosure: soldi sequestrati in Svizzera, nemmeno trasferiti su conti italiani. E ora la difesa va in Cassazione.