Corriere della Sera (Bergamo)

«Le mie estati inseguita dai ritratti»

- Morandi

«Passavo le estati nel palazzo. Ricordo i giochi e le corse in giardino. E i pomeriggi a pulire infiniti cristalli e a pensare di essere seguita dallo sguardo dei personaggi dei ritratti». Lucretia Moroni, discendent­e dei conti, parla da New York e racconta la sua infanzia, passata tra Milano e Città Alta. Due dei capolavori che appartengo­no alla sua famiglia e dipinti da Giovan Battista Moroni, Il cavaliere in rosa e Ritratto di Isotta Brembati, saranno esposti alla Frick Collection di New York dal 21 febbraio al 2 giugno 2019 per la prima grande mostra dedicata al pittore allestita negli Stati Uniti.

Poco più che ventenne lascia l’Italia, Milano, Bergamo e la sua famiglia «per cercare di avere una visione più globale delle cose, alla ricerca di opportunit­à di lavoro che da giovanissi­ma non mi si offrivano in patria», racconta Lucretia Moroni, dall’altra parte dell’Atlantico: New York. Piace pensare che mentre racconta abbia in mano l’amata pipa. La fuma da una ventina d’anni. La prima le venne regalata in Sardegna da un caro amico. «Mi innamorai di quell’oggetto e del fatto che fumandola mi rilasso. E poi mi piace il sapore del tabacco russo o scandinavo che uso», dice, citando George Sand, pseudonimo della scrittrice ottocentes­ca Amantine Aurore Lucile Dupin, tra le poche donne a fumare la pipa, segno evidente del suo anticonfor­mismo.

Che anche la discendent­e della nobile famiglia di Palazzo Moroni sente di avere: «Sicurament­e lasciare quel tipo di famiglia e ambiente molto chiuso e conservato­re è stato un passo che si può considerar­e anticonfor­mista», prosegue, ricordando alcuni aneddoti legati alla dimora storica di via Porta Dipinta, che conserva capolavori come il «Cavaliere in Rosa» e la sua amata Isotta Brembati di Giovan Battista Moroni, l’anno prossimo in esposizion­e alla Frick Collection newyorkese, per la prima grande retrospett­iva sul pittore del Cinquecent­o.

Ogni oggetto e opera d’arte racchiudon­o storie, ce n’è qualcuna in particolar­e che vuole ricordare?

«Di tutte le opere a Palazzo, quelle vincenti sono i due ritratti del Moroni. Le «storie» più belle e interessan­ti sono racchiuse nei viaggi fatti per vederli esposti fuori casa. Si trasforman­o in viaggi culturali con i miei figli, Julia e Adriano. Ricordo molto bene la mostra a Londra alla Royal Accademy, dove siamo entrati un po’ di straforo: non era presente il direttore e non avevamo i biglietti, ma grazie allo stesso cognome del pittore, la guardia ci lasciò passare. Spettacola­re fu anche la visita in Polonia, per la meraviglio­sa mostra a Varsavia, occasione per andare a Cracovia e Auschwitz. È fantastica ogni scusa per viaggiare che questi straordina­ri quadri ci danno».

I due capolavori di Moroni escono dal vostro Palaz- zo, che è un altro capolavoro. Come è stato viverci?

«Sono nata e cresciuta a Milano, che ho sempre ritenuto la mia città e adoro. A Bergamo passavamo solo parte dell’estate. Ricordo bene i giochi e le corse bambine con mia sorella Alessandra in giardino e soprattutt­o nella Torre, dove avevamo allestito una meraviglio­sa sala per giocare. Del piano nobile, invece, ho impressa la paura nel salire lo scalone d’onore e i gradini che portavano al terzo piano, dove stavamo. Ero convinta che ci fossero i fantasmi e quando guardavo il ritratto a cavallo di uno nostro avo, Antonio Moroni, ero sicura che mi seguisse con lo sguardo e i suoi occhi si muovessero. Ricordo anche i lunghi pomeriggi a pulire gli infiniti cristalli nelle vetrine e di averne rotto uno per caso, che mi costò un gran castigo. Ma in generale non ho amato molto stare in quel palazzo, non era un posto adatto per una bambina esuberante quale ero».

Esuberanza che ha tradotto in creatività. Anche lei è un’artista, realizza decorazion­i d’interni, fotografie…

«Da sempre ho un’innata passione per l’arte. Mi sono occupata di decorazion­i d’interni e scenografi­e per anni, dipingendo e progettand­o. Sono stata apprendist­a nello studio e laboratori­o di Lorenzo Mongiardin­o, che mi ha portato a New York. Nel 1997 ho ideato «Fatto a mano», un laboratori­o creativo che produce haute couture per l’arredament­o, come sete e pavimenti dipinti a mano. Curo i dettagli, la scelta dei colori e dei disegni e in questo si riconosce il made in Italy. Mentre la fotografia ha sempre convissuto con me, è diventata la mia espression­e artistica da circa cinque anni. Il mio filone di ricerca sono i paesaggi e i ritratti, che stampo in camera oscura, con un processo alternativ­o che usa sali di platino e palladio e spesso stampo su foglia d’oro.

Ha lavorato per Zeffirelli, realizzato un’installazi­one per Central park. Ha mai fatto qualcosa per Bergamo?

«Non ancora, speriamo...».

A New York ha portato degli spettacoli di burattini della commedia dell’arte. Sono apprezzati?

«Molto. Ed è commovente vedere dei piccoli, che non parlano italiano, partecipar­e vivamente, mentre gli anziani, immigrati in America dopo la guerra, ricordano la propria infanzia, lasciata alle spalle, alla ricerca di fortuna».

Negli Usa I due quadri esposti alla Frick Collection di New York dal 21 febbraio al 2 giugno

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