Cosa racconta una cicatrice
Alla Triennale le opere in 3D dei B. Livers, ragazzi con gravi malattie «Diversi e uguali, tutti ci riconosciamo perfetti nelle nostre vulnerabilità»
Meno di una settimana fa, Eugenia di York è andata all’altare lasciando bene in vista una cicatrice. Abbiamo poi saputo che la giovane donna ha voluto un abito da sposa che non solo non nascondesse, ma quasi evidenziasse, quella lunga linea bianca che le attraversa la schiena, risultato di un’importante scoliosi. Non siamo in un’epoca di cicatrici. Tutt’altro. Neghiamo l’invecchiamento, la fragilità, la diversità. Una logica aberrante che ci costringe a coprire le ferite, quelle fisiche in prima battuta, ma anche quelle dell’anima, perché non più viste per quello che sono, segni di un percorso, tracce di vita, ma solo come rivelatrici di debolezza e dolore.
Per un anno, i B. Livers, ragazzi affetti da gravi patologie croniche (soprattutto tumori, ma anche malattie rare, Hiv, disturbi alimentari) seguiti da Fondazione Near Onlus, si sono incontrati al +LAB, il laboratorio di stampa 3D del Politecnico di Milano. Giovani e giovanissimi con alle spalle storie diverse ma un comune denominatore: aver imparato molto presto a fare i conti con le cicatrici. Portarle alla luce? Non è così automatico. Loro hanno accettato. Si sono rivelati, hanno parlato senza filtri, e poi insieme a Marinella Levi, la docente alla guida dell’innovativo spazio, e allo staff di ricercatori e studenti, hanno scolpito le loro cicatrici, dalle più visibili a quelle più interne, trasferendole su due opere-simbolo di bellezza classica, la Venere di Milo e il David di Michelangelo. È nato così un piccolo esercito di Veneri e David, che si possono vedere nella mostra «Cicatrici», aperta al pubblico da domani in Triennale (ore 10.30-20.30, via Alemagna 7, fino al 28, chiusa il lunedì).
«A cosa serve veramente la stampa 3D? Il più bel modo che abbiamo trovato è forse quello di lavorare con i B.Livers e dare vita al progetto Cicatrici», dichiara Marinella Levi. «Al Lab diciamo sempre “Se puoi sognarlo, puoi stamparlo”, mettere insieme tecnologia e malattia è stata una bellissima sfida». Venere soffocata da una spirale (Giada spiega che ha voluto rappresentare non solo la sua fatica a respirare ma anche l’incapacità di esprimere una paura enorme che si porta dentro). Una Venere blu e una tutta colorata, quasi attaccate («quella blu mi rappresenta ora, l’altra tutta colorata è come sarei stata senza la malattia», dice Chiara). E ancora un Davide, immagine fortissima, senza testa e busto. E poi braccia che diventano rami, buchi dove dovrebbe essere il cuore, sbarre di una prigione in mezzo al corpo, una palla da galeotto a bloccare i movimenti, macchie di colore a delimitare alcune parti del corpo.
Le cicatrici si rivelano segni universali, quasi senza appartenenza. «Siamo tutti sullo stesso piano, tutti ci riconosciamo perfetti nelle nostre vulnerabilità», sottolinea Martina (che definisce la mostra un open source che può continuamente arricchirsi di pezzi). Un elogio alla bellezza e all’unicità, all’imperfezione (che non è tale), una discesa nelle emozioni più recondite. Chi visita «Cicatrici» non ne uscirà indenne.