Delitto di Carnevale a Borgo Palazzo Il libro di Paravisi
Tra feste, garibaldini e prostitute Fabio Paravisi racconta la storia di un assassinio in Borgo Palazzo
Sarà presentato domani alle 18 alla libreria Ubik di Borgo Santa Caterina 19 il romanzo «Le impronte del male» di Fabio Paravisi (edizioni Bolis). Si tratta di un giallo con venature di commedia che si svolge nella Bergamo post unitaria, e che prende spunto da un fatto vero, l’omicidio di un mediatore di bestiame, accaduto nel febbraio 1869, in quella che oggi è via Borgo Palazzo. Delitto ricordato da un cippo ancora presente ai bordi della via. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo.
Camminando sotto una sottile pioggia gelata i due costeggiavano il grande complesso in disarmo della Fiera con le sue centinaia di botteghe semiabbandonate, e da lì imboccarono il percorso lastricato del Sentierone che collegava i due borghi di Bergamo Bassa. (...) Il seppellitore li vide arrivare da lontano e piantò il badile nel cumulo di terra a fianco della fossa che stava scavando. Poi con tutta calma li guardò avvicinarsi. «Lei è il seppellitore?», chiese Fainella. Quello guardò la fossa, poi riguardò Fainella e alzò le spalle. Ha ragione, si disse il carabiniere, domanda stupida. (...) «E dove...» fece per dire. L’altro indicò col manico del badile un edificio basso in fondo al camposanto, poi ricominciò a scavare nella terra fradicia. Il carabiniere e la guardia entrarono nella camera mortuaria. Dalla porta filtrava una luce livida e Fainella accese una lampada che trovò su uno scaffale. La fiammella illuminò poco alla volta la sagoma che si intravvedeva su un tavolo. Sembrava una grande bestia abbattuta. Anche da morto, Monticelli continuava a mostrare la forza che doveva avere avuto da vivo nelle dimensioni delle spalle, del torace e delle braccia con le maniche rimboccate. Un braccio penzolava dai bordi del tavolaccio. (...) Fainella si girò, appoggiandosi con un improvviso fiatone allo stipite della porta e maledicendosi: vuoi indagare su un omicidio e non riesci nemmeno a guardare la vittima.
«Cosa c’è, ti senti male?», gli chiese Pagnoncelli.
«In vita mia un cadavere non l’avevo visto mai, nemmeno quello di mio nonno che pure ci siamo tenuti in casa tre giorni prima del funerale».
«Beato te, io ho cominciato a sei anni a fare il chierichetto, e sai quanti che ne ho visti quando andavamo a fare la benedizione? Le prime volte me li sognavo di notte». (...) All’improvviso si girò con un gesto rabbioso e si affacciò alla porta, gridando: «Sotramòrt!». Il seppellitore alzò la testa dalla fossa, colto di sorpresa dall’urlo e, senza neppure sapere perché, si affrettò verso la camera mortuaria. Fu investito dalla furia della guardia: «Ma è così che fate il vostro mestiere? È così che si trattano i morti? E il giudice istruttore cos’ha detto?».
Colto di sorpresa dall’esplosione di rabbia di quello spaventapasseri che pochi minuti prima sembrava confondersi con i cipressi del vialetto, il Ghezzi allargò le braccia tentando una risposta. Ma non essendo abituato a parlare fece fatica a organizzare in modo sensato i tentativi che gli si affacciavano alla mente: «Ma io... ma loro... ma quando... ma pota io...».
«Ma pota un ostrega!», sbottò Pagnoncelli, abbrancando il seppellitore per un braccio e trascinandolo dentro, sotto lo sguardo sbigottito di Fainella che mai si sarebbe aspettato una simile esplosione di energia.
«E adesso ci aiutate! — ordinò Pagnoncelli — Spogliatelo!». L’altro tentò in qualche modo di articolare un’obiezione indicando la porta: «Ma loro... ma quelli là... ma io...».
Pagnoncelli ringhiò: «Guardate che sono dietro a stufarmi, e se mi stufo davvero sono capace di farvi fare la strada fino all’ufficio di Pubblica Sicurezza a pedate nel didietro». Anche nella stupefazione del momento, Fainella si guardò intorno chiedendosi: «Ma dietro dove?». Il Ghezzi si rassegnò, rimboccandosi le maniche e cominciando in modo spiccio la svestizione del cadavere. (...) Quando il torace fu liberato dai vestiti, il seppellitore lo indicò con una mano. Avrebbe voluto dire: «Ecco, siete contenti adesso?», ma nel dubbio di riuscire a mettere nell’ordine giusto le quattro parole si accontentò di srotolarsi le maniche. La guardia mise le mani sulle spalle del carabiniere e gentilmente lo girò verso il cadavere: «Allora? Cosa dici?». Vergognandosi della propria paura, Fainella si fece avanti cercando di dare un’occhiata professionale al corpo. «Poraccio...», mormorò avvicinandosi. Con un gesto sgraziato il seppellitore prese il braccio muscoloso che penzolava dal tavolo con la mano stretta a pugno e lo spinse sul corpo ma il braccio ricadde giù. Il cadavere era ricoperto di lividi, gonfiori, tagli. Alcuni segni erano tondeggianti, altri lunghi e stretti, in più punti la pelle era lacerata. L’occhio sinistro era gonfio e scuro, un lato della faccia era coperto di sangue e fango.
«Un cadavere non l’avevo guardato mai, ma di gente abbottata quando stavo a Napoli me n’è capitata parecchia — mormorò Fainella —. Quelli sono pugni, queste qui bastonate, lì sono costole rotte. E nel collo — disse in un soffio indicando dei segni profondi — una coltellata, anzi due, pure tre». Il Ghezzi riprese il braccio penzolante e cercò di rimetterlo a fianco del cadavere. Vicino al polso c’era quella che sembrava una macchia di sangue coagulato, ma che da vicino somigliava più a pelle morta con sotto un grosso grumo.
«Il morto è morto», fece sarcastico il seppellitore. Il tono non piacque a Pagnoncelli, che reagì subito: «Al posto di fare lo spiritoso, cercate di aprirgli la mano». Borbottando «almeno un po’ di rispetto, io sono stato giù col Garibaldi», il Ghezzi obbedì. O almeno ci provò, perché le dita non volevano saperne di aprirsi. «Per forza, è qui da ieri sera». «Va bene, rivestitelo, vi faremo sapere», disse Fainella che non vedeva l’ora di uscire, e si avviò verso la porta. Il seppellitore aspettò di vedere le due divise allontanarsi, poi scandì con aria beffarda: «Comandi». Recuperò la pala e buttò un’occhiata al cadavere: «A te ti copro giù dopo, tanto non hai mica freddo», disse spegnendo il lume. Quando sbatté la porta il braccio del cadavere ricadde di lato e la mano si socchiuse.
Lungo via Borgo Palazzo c’è un piccolo cippo con una lapide di marmo che recita: “Monticelli Francesco fu Pietro, d’anni 43 qui assassinato il 7/2/1869 - I figli” Il cippo ha resistito per un secolo e mezzo al mondo che gli è cambiato intorno. Vale la pena, per una volta, di chinarsi su quella pietra e sentire cos’ha da raccontare