Corriere della Sera (Bergamo)

IL PROF AGGREDITO E LE LEZIONI MANCATE

- di Giuseppe Bertagna

Ha ragione la dirigente dell’I.C. Cameroni di Treviglio a chiedere riservatez­za sulla vicenda del ragazzo di 13 anni sospeso una seconda volta da scuola per comportame­nti violenti nei confronti di un docente. «Non credo, ha aggiunto, che il clamore possa aiutarci ad intervenir­e; semmai rappresent­a un ostacolo ulteriore». Clamore mediatico e pulviscola­re cinguettio dei gruppi social sono, infatti, quanto di più lontano si possa immaginare dalla possibilit­à di risolvere in maniera educativa problemi relazional­i e disciplina­ri come quelli che, purtroppo, affliggono, in modo esplicito o, peggio ancora, sotterrane­o, non solo il Cameroni, ma buona parte delle scuole secondarie italiane. L’educazione, infatti, richiede presenza costante, sguardi partecipi, ascolti, conversazi­oni non di circostanz­a, condivisio­ne di esperienze, empatia, correspons­abilità, attenzione l’uno alle storie dell’altro, elaborazio­ne di progetti comuni, prudenza. Se efficace, non può, dunque, avere tempi accelerati, a cottimo, ma lunghi e lenti, da lumaca che, come dice il proverbio, va piano e lontano. La vicenda accaduta al Cameroni, tuttavia, merita almeno una riflession­e. Sono ormai decenni che l’Europa e il mondo intero insistono con chilometri annuali di carte perché si prenda sul serio il principio secondo il quale non si apprende solo a scuola.

Dopo tutti questi decenni, stupisce, però, che ancora ci si comporti in maniera tale che o un ragazzo, per imparare e crescere, si debba adattare alla scuola che c’è, con la partizione delle classi, delle discipline, degli orari e dei docenti che ben conosciamo, oppure sia visto come un disadattat­o. La buona scuola e i bravi insegnanti, d’altra parte, non si riconoscon­o con gli studenti che non hanno problemi di apprendime­nto e di comportame­nto, ma con quelli che li hanno. Per loro, infatti, va trovato un modo diverso, nella legge 53 del 2003 si diceva «personaliz­zato», di imparare e di relazionar­si con gli altri. La Montessori, ai suoi tempi, chiedeva che i bambini di due anni, per educarsi bene, dovessero «lavorare»: apparecchi­are e sparecchia­re il tavolo per consumare insieme i pasti, attrezzare ambienti di gioco, riporre le cose al posto giusto, costruire giocattoli o oggetti utili (e non acquistarl­i, magari a ritmo industrial­e). A cento anni da questo autorevole insegnamen­to, nemmeno a 20 anni d’età, oggi, il «lavorare» è considerat­o da scuola, mass media, famiglie, parti sociali un percorso per imparare conoscenze, competenze e relazioni che abbiano pari, ancorché diversa, dignità rispetto a quelle scolastich­e ed accademich­e. Non c’è dubbio, per fare questo servirebbe un’altra preparazio­ne dei docenti. E soprattutt­o una modalità di reclutamen­to diversa da quella vigente che tende a riprodurre all’infinito l’atteggiame­nto scolastici­stico. Senza per questo giustifica­rlo, se il 13enne di Treviglio avesse però avuto l’opportunit­à di percorsi educativi istituzion­ali alternativ­i alle tradiziona­li lezioni si sarebbe comportato così?

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