Libera l’infermiera killer di Lecco «È guarita, ora dimenticatela»
Arrestata nel 2004, Sonya Caleffi fu condannata per l’omicidio di cinque pazienti
«So che è difficile, ma vorrei che adesso calasse l’oblio su mia figlia. Si è pentita, è stata curata ed è guarita. Ha scontato la sua pena». Altro non aggiunge Nicola, il padre di Sonya Caleffi, l’infermiera killer condannata con rito abbreviato in primo grado e in appello a vent’anni di carcere per l’omicidio di cinque anziani e il tentato omicidio di altri due, tutti ricoverati all’ospedale di Lecco.
Sonya oggi è una donna libera. Nei giorni scorsi ha potuto lasciare definitivamente il penitenziario di Bollate: l’affidamento in prova ai servizi sociali iniziato già nel mese di marzo sta per concludersi, così la pena, ridotta a 14 anni grazie all’indulto e alla buona condotta, che prevede uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi dietro le sbarre. Era stata arrestata il 14 dicembre del 2004. A dare il via alle indagini i famigliari di una delle vittime e gli stessi sanitari insospettiti dall’anomalo aumento dei decessi nel reparto di medicina, casualmente concomitanti con la presenza in corsia della donna, oggi 48 anni, originaria di Tavernerio, nel Comasco. Secondo l’accusa i malati sarebbero stati uccisi con una iniezione d’aria in vena che aveva provocato un’embolia. Fondamentale per lo sconto di pena la confessione. Aveva agito, le sue parole, per farsi notare e sentirsi valorizzata da colleghi e superiori, pronta a intervenire per tentare di salvare le stesse persone che aveva ridotto in fin di vita.
«Giustificazioni apparse insufficienti, poiché nella realtà rimaneva ferma e imbambolata travolta dalle sue stesse azioni — spiega l’avvocato Claudio Rea, legale durante tutto l’iter processuale dell’infermiera —. Non sapremo mai le motivazioni vere che a mio parere sono collegabili a un disturbo di personalità curato in questi anni. Il carcere ha certamente avuto un effetto benefico, è servito a Sonya Caleffi che attraverso un lungo lavoro terapeutico è arrivata a una presa di coscienza e al rimorso, iniziando un percorso di risocializzazione». In prigione prima al Bassone di Como, poi all’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, infine nei carceri milanesi di San Vittore e Bollate. Dietro le sbarre la donna ha trovato un lavoro come centralista e un nuovo amore, ma il matrimonio con un altro detenuto si è concluso nel volgere di pochi mesi. Adesso per lei la nuova vita a Milano.
Difficile però, soprattutto per i parenti delle vittime, dimenticare la lunga scia di morte causata dall’infermiera comasca, a cui inizialmente erano stati contestati 28 omicidi, 18 quando lavorava all’ospedale Manzoni di Lecco e 10 al Sant’Anna di Como. «La mia famiglia è stata beffata due volte — commenta Ester Goggia, nipote di Maria Cristina, l’anziana di Dervio morta a 99 anni per l’iniezione letale —. La prima quando la povera nonna è stata uccisa da chi doveva prendersi cura di lei. La seconda ora dalla giustizia: solo in Italia un’infermiera che ha sulla coscienza cinque vittime, senza contare i tanti sospetti, dopo 14 anni di carcere può tornare a vivere come una persona qualunque. È aberrante».
Tra gli omicidi confessati anche quello di Biagio La Rosa, generale in pensione di 84 anni di Lecco. «È una pura questione matematica, è libera perché questo prevede la legge — le parole del cognato della vittima, l’avvocato Francesco Giordano —. Non provo rancore o rabbia. Aveva un debito con la giustizia e l’ha saldato. Mia sorella però non si è più ripresa dalla morte del marito e poco dopo è scomparsa anche lei».
I parenti delle vittime Per alcuni è «una notizia aberrante», per altri «ha pagato il debito con la giustizia»