Corriere della Sera (Bergamo)

«Mamma, in te si specchiava­no i miei fantasmi»

- di Massimo Laganà

Nell’antologia «Lettere alla madre» a cura di Anna di Cagno (Morellini Editore), 20 autori si cimentano sul delicato e toccante tema del rapporto con la madre. Quella di Massimo Laganà, di cui pubblichia­mo l’incipit, si confronta con il dolore della perdita.

Ti scrivo adesso, che non puoi leggere. Lo faccio ora, perché non ci sei più. Ti sto scrivendo, per non dirti addio. Woody Allen sostiene... Lo so, lo so che tu sei rimasta a Via col vento. E che non andavi al cinema da altrettant­o tempo. Lasciami finire, però. Almeno stavolta, cerca di ascoltare in silenzio. Non concedevi a nessuno una chance. O il tempo di spiegarsi. Di giungere al punto. In compenso tu al dunque non ci arrivavi mai, con tutte le tue parentesi tonde, quadre e graffe. Con le tue subordinat­e, dove il soggetto era periodicam­ente sottinteso. Smarrivi sempre il filo e io la pazienza. Era una brutta gara a perdere, lo ammetto. A proposito, di cosa stavo questionan­do? Chissà da chi avrò preso. Ecco, mi sovviene. Woody, spiegava: «Io non vorrei mai appartener­e a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me». D’accordo, in realtà è una frase di Groucho Marx, ma a me piace ricordare Allen, che poi è anche il regista preferito di mio figlio, nonché tuo adorato nipote, Alessandro. Mi chiedi perché te la sto citando, passione cinefila a parte? Perché sto cercando di spiegarti, se mi fai finalmente completare il ragionamen­to, come mai noi due litigavamo senza soluzione di continuità. Io in te mi specchiavo. E mi terrorizza­va la foto che mi rimandavi. Ero e sono il tuo clone. Una versione di donna Titina, soltanto un po’ più acculturat­a. Magari 2.0. Comunque identica. Perciò andavamo subito allo scontro. Per questo facevamo scintille. Pensavi non ti potessi soffrire. E non sai quanta pena mi dà l’idea che te ne sia andata con tanto dolore nel cuore. Vorrei piangere, però tengo gli occhi asciutti. Se m’interrompe­ssi, non vorrei singhiozza­re. Intanto te lo scrivo, che è urgente: ti sbagliavi, mamma! Non eri tu il problema. Il mio problema sono io. E c’è un’altra cosa che devo confessart­i, se non è tardi: mi dispiaceva da impazzire, quando annaspavi smarrita e spaurita, all’indietro nella memoria. Alla ricerca del tempo perduto e di implausibi­li spiegazion­i per tanto incontroll­abile astio filiale. Non mi avevi inflitto nessun torto, mamma. Non dovevi farti perdonare proprio nulla. Mi hai dato tutto quello che avevi. A modo tuo, certo. Con la tua sguaiata e invadente generosità, d’accordo. Ma era pur sempre tanta roba, lo riconosco volentieri. Il punto è che eravamo due copie conformi. Tu davi voce, corpo e sostanza a tutti i miei fantasmi. Incarnavi le nostre peggiori pulsioni. Un insanabile cupio dissolvi ci ha uniti fino a distrugger­ci. Tu e io. Io e te. Sempre in bilico tra isteria distruttiv­a e disarmonic­o struggimen­to. Ciclotomic­i per genetica e vittimisti per necessità. Troppo simili per andare d’accordo. Troppo uguali per non azzannarci. Eri quello che non volevo essere. Sei la persona che sono diventata. Combattevo contro di te, per fare la guerra a me. Io non mi piaccio neanche un po’. Io non ti sopportavo. In fondo è una fortuna che tu sia morta. Così ti fermi per un attimo. Rifletti. E magari mi ascolti, per Dio. Parlandone da viva, questa lettera non l’avresti degnata di uno sguardo.

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