TUTTI INQUIETI
Il nostro governo ha deciso di sfidare la Commissione europea, che aveva chiesto di rivedere sostanzialmente la manovra di bilancio. È lo scontro tra due culture: quella dell’Unione europea e quella nazionalistica; tra la democrazia liberale e quella così detta illiberale; tra l’economia multipolare mondiale e l’economia nazionale incline all’autarchia. Un dialogo tra sordi, che dipende dai risultati delle prossime elezioni europee (maggio 2019). I pronostici al proposito sono quanto mai incerti. In ogni caso cambieranno le regole europee. Come deve reagire il mondo delle imprese e quello dei risparmiatori? Fermiamo l’attenzione sulla nostra provincia. Le imprese possono dimostrare la propria eccellenza solo se riescono a non avere impacci per esportare la produzione di beni e di servizi, cioè se integrate in un’economia mondiale multipolare e, a tale fine, non possono poggiare su un polo Italia ma solo su un polo Europa. Il risparmiatore è preoccupato di dover pagare l’onere della solvibilità del Paese, per l’indebitamento dell’Italia verso creditori esteri, nell’ipotesi che l’Italia esca dall’Unione europea o che quest’ultima si disgreghi. Di qui la situazione di stallo, almeno fino a maggio 2019, dell’economia italiana. La cosiddetta manovra del cambiamento poggia su una crescita dei consumi interni spinta da misure con effetti elettorali sperati. Ma purtroppo, per ora ma anche per il futuro, il peso dell’economia italiana è legato alla economia mondiale e non a quella auspicata nazionale.
Possiamo accettare uno stallo di un semestre nelle scelte dei risparmiatori? Credo proprio di no. Anche a motivo che le incertezze dei risparmiatori (i bergamaschi non sono una eccezione rispetto al resto del Paese) divengono timori e dubbi dei consumatori.
Il governo delle due vie possibili per rilanciare l’economia italiana ha scelto quella di sostenere la domanda per consumi in confronto all’altra di promuovere gli investimenti, secondo il pensiero keynesiano, per altro riferito alla situazione in atto negli anni Trenta del secolo scorso. Poiché l’una e l’altra opzione vanno finanziate in deficit, è indubitabilmente la seconda alternativa quella da perseguire; ma occorre un codice degli appalti e attirare grandi imprese straniere per assicurare in tempi convenienti il concretarsi dei progetti. Se poi, nel frattempo, si bloccano i cantieri già in atto e si rinviano la manutenzione delle infrastrutture e nuove iniziative, si ha la certezza di imboccare la strada della decrescita economica, dell’aumento del debito statale, della necessità di nuove imposte e della ristrutturazione del debito e l’alta probabilità di dover uscire dall’Unione europea. Un vero disastro. Purtroppo, possibile, se l’orologio della scienza e della storia non cammina verso il futuro, ma a ritroso.
La prima condizione necessaria per il fallimento di un programma politico e/o di impresa è di avere molti debiti. Si rifletta che il governo giudica insopportabili i patti sottoscritti in Europa. I Paesi europei che li rispettano hanno una crescita economica quasi doppia di quella italiana. Che non sia il nostro debito pubblico l’avversario da battere?