«Lapis Desco» L’enciclopedia di Davide Casari
Essenziale, pulita. Un gioco di pieni e vuoti. Di luce e penombra, in sintonia con il luogo: l’ex oratorio di San Lupo. «Operasosta» di Davide Casari è «un esordio. Un rinnovamento dell’anima. In questa ricerca artistica ritrovo me stesso, la mia natura fragile», dice l’autore, spiegando la scultura davanti a sé, intitolata «Lapis Desco». «Un tavolo e sedie, di mano», continua, sottolineandone l’artigianalità. Realizzata in un anno, è composta da 70 mila strisce di carta di giornale, ritagliate nel formato 30 x 10 centimetri e stratificate. «Ho scelto la carta perché questa scultura è timida e potente al tempo stesso — spiega —. La carta è un materiale umile. È paziente e se di un quotidiano riporta anche il presente. È un’enciclopedia dell’oggi». La mostra «Operasosta», promossa dalla Fondazione Bernareggi e curata da Damiano Fustinoni e don Giuliano Zanchi, sarà inaugurata sabato alle 18.30. Entrando nell’ex oratorio, realizzato nel XVIII secolo da Ferdinando Caccia per la Confraternita della Morte, accoglie un tavolo. Grigio. Lungo. Se si pensa a quello dell’Ultima Cena si è fuori strada. L’artista di Verdellino, classe 1971, autodidatta, ha pensato ad altro: alle tavole di un qualsiasi albergo, imbandite e servite da camerieri. Ma a questa scena Casari, appellandosi al potere dell’arte di trasformare le cose, dà un significato altro: «Non è il tavolo del consumo, ma dell’attesa, della preparazione e della cura — dice l’artista —. Simboleggia l’inizio della società della convivialità, dopo l’era del cacciatore». Ai lati della porta di ingresso, due delle quattro sagome, o meglio «Sakoma», esposte. Nome delle grafiche monotipo, recupera l’etimo greco «sákoma». In esse si riproducono «dei camerieri di stanza che servono calma, da intendersi nel significato originario di calore, e la cui figura rimanda alla pianta del desco visto dall’alto». Davide Casari è attento ai particolari e alle parole. Le soppesa. Per creare si nutre di elementi letterari, che poi setaccia. Perché di ogni testo letto mantiene una parola, in questo caso «sosta», che poi «diventa fonte di luce»: l’opera. La stessa luce raffigurata nel calice bianco posto tra due «sakome» nere, visibili al piano superiore. Ci si arriva per strette scale. Sui lati opposti del matroneo due grafiche in dialogo: il calice e il silenzio. «La mostra si apre con l’attesa di qualcuno e — conclude il curatore Fustinoni — si chiude con l’attesa di qualcun altro, che potrà arrivare e spostare quella sedia». Quel qualcuno è il visitatore. Il quarto uomo, a cui le tre sagome poste sulla destra, entrando, lasciano spazio. Perché ognuno è parte di una società conviviale, da ritessere partendo dai bisogni, dalla condivisione di tempo, calore umano, di un pezzo di pane o di un silenzio.