Corriere della Sera (Bergamo)

«Marisa, non resteremo indifferen­ti»

Uccisa dal marito, il parroco: risvegliam­o la cura per i più deboli

- Berbenni

«Bisogna risvegliar­e la cura e la difesa dei più deboli o saremo complici dei drammi di cui la famiglia di Marisa e altre famiglie sono state colpite». È l’appello di don Angelo Belotti, parroco di Curno, che ieri ha celebrato i funerali di Marisa Sartori, la 25enne accoltella­ta dal marito una settimana fa. Per tutto il paese, prima e dopo la cerimonia, sono stati esposti drappi rossi contro la violenza sulle donne. Il sacerdote ha invitato a combattere l’indifferen­za perché «questa catena drammatica s’interrompa». La sorella della vittima resta in ospedale. La famiglia le ha fatto visita prima della messa: «È lei a farci la forza», dice una zia. «Voglio giustizia», le parole di mamma Giuseppina fuori dalla chiesa.

Al momento della comunione, il banco si svuota e padre e figlia si ritrovano come una settimana prima. Lui in piedi, lei stesa accanto. Solo che adesso la disperazio­ne si è trasformat­a in un dolore che piega Roberto Sartori in due. È immobile, ricurvo sul banco davanti, con la testa bassa e le braccia che reggono tutto il peso di questa tragedia. La bara di Marisa alle sue spalle. Sabato scorso, finito il lavoro, la ragazza ha trovato in garage Ezzeddine Arjoun, il marito denunciato cinque giorni prima, ora in carcere. Ha accoltella­to a morte lei, a due giorni del suo 26esimo compleanno, e ferito la sorella Deborha, di 23 anni, ancora in ospedale. Non c’è al funerale e, per le sue condizioni, neanche ha potuto avvicinars­i a Marisa, la cui salma è rimasta al Papa Giovanni XXIII fino a ieri.

La mamma Giuseppina Elettuari e il padre raggiungon­o il sagrato pochi minuti prima delle 15. A Curno è lutto cittadino. Negozi chiusi e il rosso ovunque. Fiocchi di tulle fuori dai bar e drappi alle finestre. Spille al petto e nastri tra i capelli. Sciarpe al collo. Al cancello di casa Sartori hanno appeso la coccarda più vistosa. All’oratorio, che sta a due passi, ai bambini hanno disegnato una riga sulle guance come fossero piccoli indiani. Ma oggi non è un gioco, oggi vuole dire altro. È tutto rosso, per ribellarsi alla violenza di genere. E anche bianco, come per guardare oltre. Sono bianchi i fiori sopra la bara, bianche le tre rose che una mamma stringe davanti alla chiesa. Marisa faceva la babysitter ai suoi figli. Tutto il paese è qui. Ci sono il sindaco Luisa Gamba e i colleghi di Treviolo, Mozzo e Lallio. C’è Antonio Di Pietro appoggiato all’ingresso e poi mischiato al corteo. Ci sono le volontarie dell’associazio­ne Aiuto Donna con l’avvocato Marcella Micheletti. C’è una folla che segue Marisa fino alla fine e a piangere, tra i tanti, è anche Amelia, la donna che l’ha soccorsa subito dopo l’agguato e insieme a papà Roberto ha assistito agli ultimi respiri della ragazza.

Prima della cerimonia, i genitori e pochi parenti hanno fatto visita a Deborha, che inizia a mangiare da sola e ad alzarsi dal letto. «È debole, però sta bene — confida una zia —. È lei che dà la forza a noi. Avrebbe voluto partecipar­e al funerale, ma i medici glielo hanno vietato». La mamma aggiunge poche parole: «Voglio giustizia, certo che la voglio». E poi inizia la messa. «Reagire, interrogar­ci e non lasciarci andare alla rassegnazi­one», invita dall’altare il parroco don Angelo Belotti. «Quello di Marisa — riflette — è soltanto l’ultimo, forse neanche l’ultimo, episodio di tanti simili». E allora bisogna sconfigger­e «quella indifferen­za e quella sonnolenza, che sono anestesia impercetti­bile sulle nostre coscienze e che ci portano ad accettare l’inaccettab­ile — dice il sacerdote —. Dobbiamo porci la domanda: che cosa posso fare io? Che cosa possiamo fare noi, perché questa catena drammatica si interrompa?». Per don Belotti si può fare molto «con le parole, con i giudizi». Bisogna, incita, «risvegliar­e la cura e la difesa dei più deboli: la donna, l’immigrato, l’anziano, l’ammalato. O saremo complici, in un certo senso, dei drammi di cui la famiglia di Marisa e altre famiglie sono state colpite».

Il sindaco Gamba prende la parola per una preghiera, perché «i simboli rossi che molti di noi oggi indossano — spera —, non siano solo segno del contrasto alla violenza ma soprattutt­o di speranza in un futuro di rispetto in cui riuscire a spezzare il male con tutte le nostre energie di amore». A Dio chiede di «illuminare le menti di tutte le persone, specialmen­te di chi ricopre ruoli nelle istituzion­i, perché vengano attuate in tempi brevi nuove politiche a favore della dignità, del rispetto e della protezione delle donne». Per quanto le compete intende mettere a disposizio­ne della famiglia e più in generale del paese «un aiuto — anticipa —, perché la tragedia di Marisa ha sconvolto non solo chi le stava vicino. È una ferita che fa male a tutti».

La sorella ferita Non ha potuto partecipar­e al funerale, una zia: «Sta meglio, è lei a darci la forza»

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Uno dei fiocchi rossi esposti ieri a Curno
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(LaPresse/ Manzoni) I simboli A sinistra, due donne partecipan­o al funerale di Marisa Sartori, a Curno, indossando una spilla rossa; alle loro spalle, una coccarda appesa fuori da un negozio; a destra, il dolore del padre della ragazza e la famiglia
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