QUALE MODELLO PER UBI
L’amministratore delegato sarebbe tentato dall’aggregazione della banca senese e da una nuova sede a Milano
Con almeno un ventennio di anticipo sui predecessori, a 62 anni d’età Andrea Moltrasio lascia la presidenza di Ubi, consegnando a chi verrà dopo di lui qualche input e un buon bagaglio con cui affrontare il futuro: il miglior bilancio degli ultimi dieci anni (seppur con i ricavi da schiodare) e uno statuto che, rivoltato come un pedalino, garantisce nel sistema di governance monistico, oltre che nell’assetto societario della spa, un equilibrio nuovo, flessibilità e rapidità decisionale nel rispetto di quei parametri che gli organi di vigilanza (europei e non) hanno stabilito ed auspicato. Tra gli altri, due su tutti: la policy sul fit and proper per il nuovo consiglio, adottata recentemente, e quella sui conflitti di interesse che regola perentoriamente quello che il buon senso dovrebbe suggerire, sua sponte, agli amministratori. Tradotto semplicemente: chi ha attività imprenditoriali, prende i suoi conti correnti e li sposta su un’altra banca.
Ubi non è più la stessa banca del 2013. Da allora ha vissuto una rivoluzione copernicana, senza precedenti. È diventata banca unica, ha acquistato le tre banche, facendole diventare da bad a good in tempi brevi e sfuggendo alla tentazione di ulteriori conquiste in terra di Toscana. Nell’estate del 2016, la solleticante idea di M&A sul Monte dei Paschi di Siena era tutt’altro che peregrina (risulta agli atti), ma si è sciolta nel solleone di quel mese di luglio.
«Finché ci sarò io — tuonò allora Moltrasio — con Mps non si farà nulla», contrapponendosi a quelle che, neanche troppo velatamente, erano le mire espansionistiche del suo ad, Victor Massiah. Al quale quest’idea di Ubi come polo aggregante non è mai dispiaciuta, anche se il panorama delle acquisizioni è quello che è. Manco fosse un ospedale dove ricoverare i malati bancari gravi, fino allo sfinimento si è parlato di Ubi per il salvataggio di Carige, come se comprare ai prezzi di saldo quel che resta dell’orgoglio finanziario della Superba sarebbe stato facile, ma spazi per grandi manovre, anche con altri istituti, non se ne vedono.
A meno che, via Moltrasio, Mps ritorni in auge. Così come potrebbe ritornare, anzi sicuramente ritornerà, l’ipotesi di Gioia 22, il grattacielo su cui il consiglio di sorveglianza, in pieno semestre bianco, ha messo lo stop. Ora, l’operazione che punta ad una razionalizzazione del patrimonio immobiliare della banca in area milanese avrà pure una sua logica in chiave di risparmi futuri, su cui saranno state fatte delle valutazioni, ma per dare un’idea tra la cessione degli immobili (300 milioni) e l’acquisto, con la costruzione ex novo del grattacielo (400 milioni), ballano in tutto 700 milioni di euro con una differenza, tra dare e avere, di 100. Non esattamente bruscolini.
Se al futuro occorre guardare, bisognerà farlo non solo dagli alti piani, tutto vetro di una costruzione avveniristica, ma anche dall’interno di una banca dove l’information technology dovrà risultare accessibile, visibile e misurabile nei tessuti connettivi della banca. Tutto corre, evolve in modo rapidissimo e le banche non possono permettersi di restare indietro. Perché, per dirla come Bill Gates, se le attività bancarie sono necessarie non altrettanto lo saranno le banche. Non ancora per molto tempo. Un fattore, questo del tempo, essenziale per mettere la distanza tra l’oggi e il domani anche del presidente uscente, perché a volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto.
L’operazione Per il nuovo palazzo servirebbero 400 milioni, di cui 300 garantiti dalle cessioni