Curino porta a teatro lo Schindler dell’arte italiana
Lavora di passione. Se Laura Curino ha una storia interessante da raccontare, dopo una messinscena va subito in albergo per scrivere. Per due anni, tra una tournée e l’altra, «ho lavorato per trovare l’uomo e la contemporaneità, per immergermi in Pasquale Rotondi, per capire come trovò il coraggio e l’energia per fare ciò che fece. Cercando di rispondere a queste domande sono arrivata al suo professore di università, Adolfo Venturi, alla moglie e alle figlie», racconta l’attrice. Giovedì alle 21 sarà al Sociale, per la stagione di Altri percorsi, in «La lista». Sottotitolo: «Salvare l’arte: il capolavoro di Pasquale Rotondi». In scena Curino ripropone la storia vera del «sorprendente soprintendente che, in 5 anni, 3 mesi e 8 giorni, salvò circa dieci mila capolavori che i nazisti avrebbero voluto portare in Germania. Ha salvato la Pala Montefeltro di Piero della Francesca, oggi conservata in Brera, il San Giorgio del Mantegna e la Tempesta di Giorgione, che per lui era l’opera più suggestiva. Il quadro che preferiva, visto il mistero che racchiude», continua l’attrice. Quando a Curino raccontarono la storia di Rotondi, la trovò subito fantastica. «Mi tremarono i polsi — dice —. Così iniziai a leggere Salvare l’arte, di Salvatore Giannella, in cui racconta parte della vita di Rotondi, e il quaderno in cui si riporta la storia del soprintendente. Dalle interviste ai familiari capii che era un uomo affascinante, acuto e allegro. Era solito dire che “non bisognava infelicitarsi prima del tempo”. Riuscì nella sua operazione salvataggio grazie a un gruppo di amici e alla moglie Zea. Queste le linee guida che gli diedero la forza di andare avanti». In un’ora e mezza Laura Curino riannoderà il filo della memoria, per riportare alla luce «la storia buona di un uomo, che durante gli anni della guerra decise di chi fosse l’arte, del governo o dei cittadini italiani? Da solo e senza più ordini, decise di salvare parte del nostro patrimonio culturale», continua l’attrice. Per rendere avvincente la storia, contattò le figlie. «Grazie a loro ho trasformato la parola scritta in parola viva, un personaggio fuori dal mondo in un padre. Poi ho dato ritmo al racconto, avvicinandomi alla velocità con cui Rotondi doveva prendere le decisioni». La narrazione parte dagli anni Trenta, la formazione universitaria dello storico d’arte, il matrimonio, poi l’arrivo della guerra e l’ordine di realizzare un ricovero nella Rocca di Sassocorvaro per custodire le opere. Infine, l’8 settembre 1943. «Parte l’illogico: Rotondi riceve l’ordine di trasferire le opere al nord, che sarebbero state trasferite in Germania. Ma con l’aiuto di amici, senza camion e carburante, sottrasse i capolavori da sotto il naso dei nazisti».