L’arte della fotografia
Una mostra indaga il rapporto tra immagine meccanica e pittura nell’Ottocento
Obiettivo o pennello? Oggi la fotografia è un’arte riconosciuta a tutti gli effetti, un’espressione creativa indipendente, anche un mezzo di comunicazione quotidiano di cui non si può più fare a meno. Ma che cosa accadeva ai tempi dei suoi esordi, nel 1839, quando l’invenzione fu presentata ufficialmente all’Accademia delle Scienze di Parigi? E come si configurava da quel momento il suo rapporto con la pittura, che fino ad allora deteneva il primato nella riproduzione del reale? Fu una vera rivoluzione. Un dialogo complesso, a volte conflittuale, ma in molte circostanze utile e fruttuoso. Indaga intorno alle contaminazioni tra questi linguaggi, sul filo dell’incisione a stampa, la mostra «Arte e arti. Pittura, incisione e fotografia nell’Ottocento», inaugurata pochi giorni fa alla Pinacoteca Züst di Rancate, Canton Ticino.
Curata da Matteo Bianchi con la collaborazione di Mariangela Agliati Ruggia ed Elisabetta Chiodini, la rassegna ripercorre in diverse sale l’affermarsi del mezzo fotografico rispetto all’arte pittorica e incisoria contemporanea. Lo fa da un punto di vista preciso, partendo proprio dalla Francia, dove la fotografia è nata, e dalla pittura di paesaggio tra Arras e la foresta di Fontainbleau: luoghi in cui gli artisti cercavano il contatto diretto con la natura sperimentando tra i primi la pratica del plein air. «Per questi e altri autori la macchina fotografica è stata non solo strumento tecnico ma anche stimolo a innovare la pittura», spiega Bianchi. «Se infatti la foto copia la realtà, al pittore non resta che reinventarla». Idea che in mostra è suffragata da prestiti diversificati e ragionati e da una lunga ricerca iconografica: si connettono in modo puntuale stampe fotografiche e realizzazioni pittoriche attraverso riscontri concreti e documentati. «Una conferma che molti artisti erano aperti al nuovo, colti, informati, e che l’uso della fotografia è ben presto acquisito». In primis, come si diceva, i naturalisti francesi: la mostra ne propone una bella selezione, da François Daubigny a Théodore Rousseau fino ai grandi Millet e Corot. Proprio intorno a Corot e alla sua cerchia i curatori propongono una riscoperta intrigante e curiosa: quella della tecnica dei «clichès-verre», con dieci pezzi autografi corottiani. «Si tratta di un’invenzione degli anni 50 che poi non ebbe molta fortuna: un ibrido tra disegno, incisione e fotografia su vetro, dai risultati suggestivi. In Italia l’unico a praticarlo è Antonio Fontanesi, di cui abbiamo esposto qualche esempio». Poi il focus si sposta tra Italia e Canton Ticino: anche qui i pittori sono aggiornati sulle novità fotografiche e capaci di utilizzarle. Tra i ticinesi soprattutto Luigi Rossi e Filippo Franzoni, che fanno largo uso della nuova tecnica per studiare pose e movimenti più spontanei, effetti luce-ombra naturali, inquadrature e composizioni di taglio innovativo. Non sono da meno i nostri, tra cui Carcano, Morbelli, Induno, Mariani, Mosè Bianchi, Michetti, Faruffini e la famiglia dei Vela.