Liliana Segre: «Così ho sconfitto l’odio» Sabato il dottorato
La lezione di Liliana Segre. Alla senatrice a vita l’Università di Bergamo conferisce un dottorato di ricerca «honoris causa». Sabato la cerimonia
Liliana Segre sabato sarà a Bergamo. L’Università, aprendo l’anno accademico, le conferirà un «dottorato di ricerca honoris causa». Per il rettore Remo Morzenti Pellegrini si tratta di «un sentito riconoscimento» non solo per le sue «testimonianze e pubblicazioni», ma soprattutto «per l’attività svolta nella promozione della consapevolezza in tema di tutela e riconoscimento dei diritti fondamentali e inalienabili degli individui». Liliana Segre, classe 1930, milanese di famiglia ebraica, a 13 anni venne internata ad Auschwitz e fu liberata nel 1945. Ha trovato la forza di raccontare la sua vicenda solo mezzo secolo dopo. Trasformando quella ferita in un impegno di pace, specie tra i giovani, i tanti ragazzi che ha accompagnato a visitare i lager: una vera missione educativa. Alla senatrice a vita, oggi sotto scorta (suo malgrado) per le minacce ricevute sui social e per la Commissione parlamentare contro l’odio da lei voluta, chiediamo con quali sentimenti torna a Bergamo e come accoglie il riconoscimento dell’Università.
«Con Bergamo ho sempre avuto un rapporto felicissimo. Sono cittadina onoraria dal 2005 e ho amici con cui ho anche lavorato: un nome per tutti Angelo Bendotti , presidente dell’Istituto per la storia della Resistenza. Ricordo poi più occasioni in cui sono stata invitata: l’ultima, un’esperienza bellissima, il 12 ottobre 2018, nella Basilica di Santa Maria Maggiore per Molte fedi sotto lo stesso cielo».
Questa volta è l’Università a invitarla.
«Sì. E per me è il primo dottorato: più di una laurea. È un gesto del quale mi sento onoratissima. Però...»
Però?
«Vorrei subito anticipare che la lectio che si aspettano da me sarà piuttosto una testimonianza, la mia testimonianza. Di storia e di vita. Particolare certo. Specie dopo che, vinto il riserbo iniziale, ho passato gli ultimi trent’anni a raccontarla nelle scuole, sinché sono arrivata in Senato, io per prima sbalordita dalla nomina del presidente Sergio Mattarella quando il livello dell’odio in Italia cresceva quotidianamente… Ecco il senso dell’istituzione della Commissione contro l’odio, finita sotto i riflettori forse più per le polemiche che ha creato…».
A 89 anni, lei si trova a girare sotto scorta:concorda con quanti dicono che questo è successo quando da martire dell’odio di ieri è diventata testimone dell’antisemitismo di oggi?
«Aggiungerei anche di ogni forma di discriminazione, razziale e di genere. E tutto questo credo sia finito sotto i riflettori per la vicenda della Commissione».
Gli insulti cui si fa riferimento sono in rete. Molti sono di ragazzi che si difendono dicendo che nelle conversazioni social usano certe espressioni ma si tratta solo di «battute», niente di «serio». Cosa replica a questi giovani?
«Dico loro che è un terreno pericoloso. Che d’acchito, potrebbero anche giudicarsi come sciocchezze, ma davanti a cose come “Shoah Party” tra contenuti razzisti e pornografici, siamo di nuovo all’orrore… E qui la famiglia o quel che resta di essa e gli insegnanti, questa categoria bistrattata, sottopagata e poco apprezzata, hanno un compito importante specie nella responsabilizzazione…».
Certo l’atteggiamento deresponsabilizzato di tanti ragazzi pare legato al fatto che gli insulti sono appunto nel mondo virtuale, anonimo, anche se online e offline ormai non sono più mondi così divisi: si comincia con la violenza in rete e si conclude sulla strada. E come afferma Luciano Floridi (Università di Oxford) si deve ormai parlare di «onlife»…
«Indubbiamente anche quella del digitale è una sorta di realtà. In ogni caso quello che io posso fare e reputo mio compito è combattere l’odio in tutte le sue forme. Ripeto: tutte». Lei dice: non odio, non dimentico, non perdono? Come si fa?
«Non è obbligatorio fare tutte queste cose insieme. No. Non ho perdonato. Non ho dimenticato. Ma non odio».
Liliana Segre conclude rievocando un episodio emblematico: quando nel lager di Malchow appena liberato dall’Armata Rossa — 2 maggio 1945 — e con i carnefici che tentavano di confondersi nella folla liberandosi di uniformi e armi, visto un aguzzino gettar via la pistola, non pensò nemmeno per un istante a prenderla e magari sparargli addosso, vendicandosi di tanto male, di tanti orrori. Sarebbe stato facilissimo.
Aveva già scelto di non odiare i suoi carnefici?
«No. Allora li odiavo. Certo. Ci sarebbero voluti 45 anni per guarire».
Ai ragazzi che insultano in rete dico: è un terreno pericoloso. Davanti a cose come “Shoah Party” siamo di nuovo all’orrore