LE PIANTE E NOI
Ho piantato degli alberi nel giardino. L’altro giorno, guardandoli, ho pensato che non li vedrò mai crescere abbastanza per rimpiazzare quelli vecchi che abbiamo dovuto tagliare. Ho 64 anni e ci vuole poco a fare i conti; la misura della vita umana e di quella vegetale sono largamente incommensurabili. Ecco perché la storia degli alberi di piazza Dante, da abbattere oppure no, non si potrà mai risolvere con i puri criteri della logica. C’è una variante incontrollabile in questa vicenda ed è il tempo: gli anni che ci sono voluti perché i faggi, gli olmi e gli aceri di piazza Dante crescessero, anni che sembrerebbero svanire con il loro abbattimento. E quelli che ci vorranno perché i nuovi, se nuovi se ne pianteranno, crescano a sufficienza. In mezzo c’è il tempo urbano della città, che ha fretta. Fretta di fare, di rimpiazzare, di vedere tutto finito senza pagare il prezzo di un’attesa che è di fatto la materia stessa della vita. La natura nasce, cresce, muore: sono i suoi cicli. Ma questo sembra essere uscito dalla percezione comune dei contemporanei, immersi in una specie di presente infinito, istantaneo come una cartolina e come una cartolina senza passato né futuro. Eppure anche gli alberi di piazza Dante una volta non c’erano. Le vecchie fotografie in bianco e nero del centro piacentiniano mostrano una piazza di pietra, precisa e pulita come un modellino da studio di architettura, dove nessuno aveva pensato di piantare un albero. È tutto relativo.