«I miei padri eterni Peter Pan Diversi, ma sempre assenti»
Tutte le sue drammaturgie nascono dagli interrogativi che gli presenta la vita. «In nome del padre», giovedì alle 21 al Sociale, per la stagione Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti, nasce dalle domande che Mario Perrotta si è fatto, incalzato dal figlio, che «cresce e mi spiazza — dice l’attore drammaturgo —. Lui incrina le certezze acquisite il giorno prima. Sta crescendo e cambia spesso idea. Sta a te padre riposizionarti. È uno spiazzamento sano. Nello spettacolo sottolineo che se non ti poni degli interrogativi, perdi di vista il figlio e diventi un padre assente».
Prima rappresentazione della trilogia «In nome del padre, della madre e dèi figli», dove «dèi sta per divinità, perché oggi non si dismettono i panni di figlio e si resta in casa sino a 45 anni», puntualizza Perrotta, la messinscena mette in discussione l’attuale modello di famiglia, diverso da quello patriarcale, ma alla ricerca di una nuova definizione. Per la stesura della drammaturgia l’artista si è affidato alle proprie osservazioni empiriche, unite al «punto di vista clinico dello psicanalista Massimo Recalcati sui modi poco sani di essere genitori oggi», continua l’attore. In scena sarà solo nell’interpretare tre diverse figure paterne: un commerciante napoletano benestante, un operaio veneto senza istruzione e un giornalista siciliano. Vivono nello stesso condominio e si invidiano l’uno con l’altro, pensando che il vicino viva una condizione migliore con il proprio figlio. «Mi servivano tre persone diverse per dire che, nonostante le diversità abissali, tutti sono nudi davanti alla paternità. Li mostro nella loro eterna adolescenza. Ad accomunarli è il senso di assenza — spiega Perrotta —. Si è passati dal padre padrone alla sua assenza. C’è stata un’evanescenza della figura paterna. Dal Dopoguerra a oggi si sono susseguite generazioni che, per risarcire la fame della guerra e il fascismo, hanno concesso troppo e si è andato perdendo il valore del conquistarsi le cose da sé. Sono cresciuti sempre più Peter Pan. Oggi ci sono quarantacinquenni che si vestono con jeans stracciati e hanno gelatina sui capelli come i figli adolescenti. Ci si è sottratti dalla responsabilità di essere padri e dire anche dei no. A questo si aggiunge l’atteggiamento dei nonni che continuano a fare i genitori, non permettendo ai propri figli di crescere, mentre per diventare padri bisogna smettere di essere figli».
Questi ultimi nello spettacolo non ci sono, ma la loro presenza si sente. Vanno tutti bene a scuola, ma hanno atteggiamenti diversi con i propri genitori: la figlia del commerciante prova timore verso i comportamenti del padre, che si sente un sedicenne e quasi la corteggia. Il figlio dell’operaio sostituisce il padre nel suo ruolo paterno. Quello del giornalista si isola. «Non rimpiango il vecchio modello patriarcale — conclude l’attore —. La rivoluzione culturale degli Anni Settanta ha scardinato una società ingessata, dato diritti alle donne, ma non ha saputo proporre un nuovo modello familiare. In questo ha fallito. Bisognerebbe costruirne uno nuovo recuperando i valori di chi ha fatto il soldato o il partigiano, adattandoli ai tempi moderni».
L’esperienza «Mio figlio cresce e mi spiazza. Se non ti poni interrogativi, rischi di perderlo di vista»