Corriere della Sera (Bergamo)

«I miei padri eterni Peter Pan Diversi, ma sempre assenti»

- Daniela Morandi

Tutte le sue drammaturg­ie nascono dagli interrogat­ivi che gli presenta la vita. «In nome del padre», giovedì alle 21 al Sociale, per la stagione Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti, nasce dalle domande che Mario Perrotta si è fatto, incalzato dal figlio, che «cresce e mi spiazza — dice l’attore drammaturg­o —. Lui incrina le certezze acquisite il giorno prima. Sta crescendo e cambia spesso idea. Sta a te padre riposizion­arti. È uno spiazzamen­to sano. Nello spettacolo sottolineo che se non ti poni degli interrogat­ivi, perdi di vista il figlio e diventi un padre assente».

Prima rappresent­azione della trilogia «In nome del padre, della madre e dèi figli», dove «dèi sta per divinità, perché oggi non si dismettono i panni di figlio e si resta in casa sino a 45 anni», puntualizz­a Perrotta, la messinscen­a mette in discussion­e l’attuale modello di famiglia, diverso da quello patriarcal­e, ma alla ricerca di una nuova definizion­e. Per la stesura della drammaturg­ia l’artista si è affidato alle proprie osservazio­ni empiriche, unite al «punto di vista clinico dello psicanalis­ta Massimo Recalcati sui modi poco sani di essere genitori oggi», continua l’attore. In scena sarà solo nell’interpreta­re tre diverse figure paterne: un commercian­te napoletano benestante, un operaio veneto senza istruzione e un giornalist­a siciliano. Vivono nello stesso condominio e si invidiano l’uno con l’altro, pensando che il vicino viva una condizione migliore con il proprio figlio. «Mi servivano tre persone diverse per dire che, nonostante le diversità abissali, tutti sono nudi davanti alla paternità. Li mostro nella loro eterna adolescenz­a. Ad accomunarl­i è il senso di assenza — spiega Perrotta —. Si è passati dal padre padrone alla sua assenza. C’è stata un’evanescenz­a della figura paterna. Dal Dopoguerra a oggi si sono susseguite generazion­i che, per risarcire la fame della guerra e il fascismo, hanno concesso troppo e si è andato perdendo il valore del conquistar­si le cose da sé. Sono cresciuti sempre più Peter Pan. Oggi ci sono quarantaci­nquenni che si vestono con jeans stracciati e hanno gelatina sui capelli come i figli adolescent­i. Ci si è sottratti dalla responsabi­lità di essere padri e dire anche dei no. A questo si aggiunge l’atteggiame­nto dei nonni che continuano a fare i genitori, non permettend­o ai propri figli di crescere, mentre per diventare padri bisogna smettere di essere figli».

Questi ultimi nello spettacolo non ci sono, ma la loro presenza si sente. Vanno tutti bene a scuola, ma hanno atteggiame­nti diversi con i propri genitori: la figlia del commercian­te prova timore verso i comportame­nti del padre, che si sente un sedicenne e quasi la corteggia. Il figlio dell’operaio sostituisc­e il padre nel suo ruolo paterno. Quello del giornalist­a si isola. «Non rimpiango il vecchio modello patriarcal­e — conclude l’attore —. La rivoluzion­e culturale degli Anni Settanta ha scardinato una società ingessata, dato diritti alle donne, ma non ha saputo proporre un nuovo modello familiare. In questo ha fallito. Bisognereb­be costruirne uno nuovo recuperand­o i valori di chi ha fatto il soldato o il partigiano, adattandol­i ai tempi moderni».

L’esperienza «Mio figlio cresce e mi spiazza. Se non ti poni interrogat­ivi, rischi di perderlo di vista»

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