La casa dell’amore Luca Ferri sbarca alla Berlinale
Presentato ieri sera in esclusiva mondiale al festival
L’amore prende casa a Berlino, nei giorni del festival del cinema (in programma fino al primo marzo). Alla 70esima Berlinale, il regista bergamasco Luca Ferri presenta il suo «La casa dell’amore» nella prestigiosa sezione Forum, che in mezzo secolo ha ospitato — da Bellocchio a Godard — gli autori più grandi. Coprodotto da Lab 80, «La casa dell’amore» è una docufiction (un documentario, completato da «inserimenti registici» a scopo narrativo) che bene si colloca nel clima di impegno socioculturale della kermesse tedesca. Per Ferri, la fortuna di essere a Berlino «è il coronamento di un percorso. Berlino arriva dopo Venezia (il corto “Colombi”, ndr) e Locarno (“Dulcinea”, ndr). Fra i maggiori festival, ora manca solo Cannes».
La casa del titolo è l’appartamento milanese di Bianca. Transessuale, di professione prostituta.
«All’origine del progetto, c’è la ricerca di figure che avessero un lavoro casalingo. Abbiamo individuato una trans, che fa la prostituta. Ma non era mia intenzione realizzare un film su questo tema».
Ci è riuscito. Il film non fa troppe domande. Scorre per 77 minuti, con momenti della vita di Bianca.
«Da parte mia e della troupe, doveva esserci un forte rispetto per la protagonista. Il film non prende posizioni paternalistiche, così da restituire sia le miserie sia le gioie della vita di Bianca. A me piace molto il cinema che non dà risposte, che chiama lo spettatore a essere parte in causa. Qualcuno potrebbe contestarcelo. Ma ben venga».
Ieri la prima mondiale a Berlino. «La casa dell’amore» non è un film facile per il pubblico che frequenta le sale. Che futuro avrà?
«I festival rappresentano il luogo canonico di presentazione dei miei film. Ma il mio tipo di cinema può essere fruito non solo dagli addetti ai lavori. Dopo il giro festivaliero, usciremo in sala. Forse a fine anno, al massimo a inizio 2021. Penso che “La casa dell’amore” avrà una vita lunga».
Come la sua carriera. Ormai è un autore affermato.
«Esiste il progetto di un film, che stiamo portando avanti ormai da 5 anni. Ci sono buone possibilità di poterlo realizzare. Si chiamerà “Montaigne”. Poi, tirerò le somme».
Cosa intende?
«Bisogna porsi una domanda. Ha senso continuare a fare questo mestiere? Lavorare con budget risicati ti costringe anche ad assumere una posizione difficile nei confronti di chi collabora ai tuoi film. Il momento storico poi, non aiuta. Tantomeno il nostro Paese».
Però alla Berlinale, «La casa dell’amore» corre addirittura per tre premi. Sezione Forum, miglior documentario e il Teddy Award, destinato a opere con tematica Lgbt. Ha preferenze?
«È un film un po’ scomodo. Non credo molto nella possibilità di essere premiato. Ma la nostra vittoria è già essere qui. Una scelta che fa onore ai selezionatori e conferma la loro onestà intellettuale».
ll prossimo progetto si chiamerà «Montaigne», ci lavoro da cinque anni