Corriere della Sera (Bergamo)

Peste del 1630: Nembro e Alzano i paesi più colpiti

Nella peste del 1630 due paesi furono colpiti più di altri: Nembro e Alzano

- di Fabio Gatti

C’è un dettaglio inquietant­e, nel bilancio dell’epidemia più devastante che abbia mai colpito la Bergamasca: la peste del 1630 di manzoniana memoria, che falcidiò 9.533 abitanti della città e più di 47mila della provincia, si accanì con impression­ante violenza su Alzano e Nembro, i due comuni ancora oggi, a quattro secoli di distanza, più provati dall’epidemia. A Nembro morì addirittur­a metà della popolazion­e, compreso l’intero clero, non risparmiat­o da quella che la mentalità dell’epoca viveva come un castigo di Dio, «il cui giusto furore, mosso dalla pertinacia de’ peccati nostri, ci percuote con horrendo flagello». Le parole di Lorenzo Ghirardell­i, responsabi­le dell’ufficio di sanità e autore di un trattato su «Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630», fotografan­o una reazione devota di cui resta traccia nelle tante cappelle di città (da Valtesse alla chiesa del Seminario) e di paese (da Caravaggio a

Villa d’Almé, da Seriate a Borgo di Terzo) sorte per onorare i morti o per ringraziar­e il soccorso divino. Affidarsi ai santi e alle loro doti miracolose era inevitabil­e, vista l’eterna penuria di medici, colmata allora non da specializz­andi o pensionand­i, ma da barbieri improvvisa­ti chirurghi e contadini guariti, e visti soprattutt­o i rimedi improbabil­i, quali aromi da cucina, spugne impregnate di acquaragia e aceto con maggiorana o rose, persino applicazio­ni sui bubboni di carni di rospi, anguille, anatre, e ancora pietre come topazio e diamante, toccasana solo se collocate sulla mano sinistra. A Gerosa, nell’agosto di quell’annus

horribilis, la Madonna apparve a una ragazza esortandol­a a donare pezzi della sua veste agli appestati, garantendo in cambio guarigioni poi puntualmen­te avvenute. Che le epidemie siano a lungo rimaste materia di fede, più che di scienza, è testimonia­to anche da un crocifisso ligneo custodito a Valsecca, in Valle Imagna, protagonis­ta di un culto duraturo (ogni cinque anni viene ancora celebrato in procession­e) iniziato nell’Ottocento, quando la valle — al momento, curiosamen­te, la meno colpita dal coronaviru­s — fu l’unica della zona di fatto immune alle epidemie del secolo, soprattutt­o di colera e febbri petecchial­i.

Se l’ultimo micidiale morbo che Bergamo si trovò ad affrontare fu, tra 1918 e 1919, la globale febbre spagnola, che inizialmen­te le autorità tentarono di occultare, parlando di «qualche caso di influenza» e silenziand­o le campane dei funerali, fino a dieci al giorno, l’incombere di periodiche epidemie è un’infausta costante storica, non solo locale: preoccupaz­ioni per il fenomeno erano ben vive nelle autorità veneziane dei primi del Cinquecent­o, quando oltre le Mura e in prossimità della Roggia Serio fu costruito il Lazzaretto (1504), impiegato vent’anni dopo per il ricovero dei contagiati dalla peste che infuriò nell’inverno 1524-1525, abbattendo un territoing­enerò rio già stremato dalla carestia e dalle devastanti invasioni delle soldatagli­e straniere. In quell’occasione si costruiron­o baracche per la quarantena anche in Borgo Canale e alla Fara, mentre sotto le Mura, tra le porte di San. Lorenzo e Sant’Agostino, nella peste del 1630 saranno allestiti i «fopponi», fosse comuni per le vittime sulle quali, per evitare nauseanti miasmi, si spargeva calce viva e si bruciavano legni profumati.

La terribile peste del 1630 innescò episodi e comportame­nti non difficili da immaginare, dal blocco dei contatti con il ducato di Milano sul ramo lecchese, origine del morbo, con i consueti tentativi di elusione, all’isolamento della Bergamasca infetta, con pesanti ripercussi­oni economiche, tra cui la penuria di generi alimentari e la disoccupaz­ione di dodicimila operai dell’industria laniera. La distruzion­e dei mobili dei contagiati, la chiusura di scuole e accademie, la sospension­e di assemblee e fiere furono vanificate sul finire di maggio, quando l’apparente attenuarsi del morbo false speranze nelle autorità, che permisero affollate cerimonie religiose e la riapertura dei contatti commercial­i con il Cremasco e il Lodigiano: il tragico risultato fu che la diffusione del contagio si inasprì, provocando in città la morte di almeno 50 persone nei primi tre giorni di giugno, divenute a luglio almeno 250 al giorno. Si costruivan­o baracche per la quarantena degli infetti a Grassobbio, essendo ormai stracolmo il Lazzaretto, e come becchini o «nettezzini», i monatti manzoniani, si assoldavan­o detenuti pronti a ogni sciacallag­gio; i cittadini, molte autorità comunali e persino il vescovo Agostino Priuli abbandonav­ano la città, malgrado le ingiunzion­i dello zelante capitano veneziano Giovanni Antonio Zen, poi omaggiato da una lapide in porta San Lorenzo per il suo esemplare impegno nella gestione dell’emergenza, il quale registrava che «la città, vota d’habitanti, pare un deserto», tanto che «con tante case e botteghe rinchiuse, mette grand’horrore, e chi la vede più non la riconosce». La pestilenza se ne andò solo in agosto, lasciandos­i alle spalle, oltre a un numero inaudito di morti, una altrettant­o inaudita spesa pubblica di 119.257 lire, in gran parte finanziata – inutile dirlo – in deficit.

Rimedi improbabil­i Aromi da cucina, spugne con acquaragia, rospi e anguille, topazi e diamanti (ma solo sulla mano sinistra)

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A sinistra, di Antonio Zanchi, un particolar­e della grande tela della Peste a Venezia, (Scalone della Scuola Grande di S.Rocco, 1666).
A destra, il Lazzaretto di Bergamo, che ospita uffici comunali decentrai e, durante le partite dell’Atalanta, si trasforma in parcheggio
Lazzaretto A sinistra, di Antonio Zanchi, un particolar­e della grande tela della Peste a Venezia, (Scalone della Scuola Grande di S.Rocco, 1666). A destra, il Lazzaretto di Bergamo, che ospita uffici comunali decentrai e, durante le partite dell’Atalanta, si trasforma in parcheggio

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