«I percorsi “puliti” e quelli “sporchi” La nostra guerra al Covid-19»
Appena imboccata la provinciale per la Val Seriana, è un viavai di ambulanze che sfrecciano a sirene spiegate. Seguirne una significa ritrovarsi poco dopo fuori dal pronto soccorso dell’ospedale di Seriate, dove, in fila indiana, ci sono una decina di mezzi di soccorso in attesa. Alcuni equipaggi sono lì dal primo mattino e ancora non sono riusciti a consegnare il paziente al personale medico. I posti letto vengono occupati troppo velocemente. Altre ambulanze, invece, portano al Papa Giovanni. Un’infermiera che lavora alla Trucca accetta di parlare. È stanca, mostra le mani rovinate, bianche da tanto disinfettante. Turni massacranti, nessun permesso, non ci sono figli o mariti che tengano. Servono medici e infermieri per i nuovi reparti creati tra la sera e la mattina, per accogliere pazienti Covid-19. «Anche quando arrivi a casa — racconta – mantieni le distanze dagli altri, perché hai impressa la sofferenza dei pazienti curati ogni giorno, non vorresti mai vedere i tuoi cari al loro posto».
Come vi siete organizzati? « Sono stati istituiti percorsi “sporchi” e “puliti”. Come durante una malattia tante energie vengono concentrare in un solo punto del corpo. Così anche in questo momento, globuli bianchi, piastrine, globuli rossi, sono stati messi in campo e spostati, concentrati dove serve. Grazie ai corridoi larghi e agli ampi spazi, abbiamo organizzato un reparto subintensivo dove alcuni lavorano in ambiente “pulito” e altri in ambiente “sporco” ovvero a contatto con i pazienti. Tutto è lento a partire dal decorso della malattia fino al modo di operare per evitare la contaminazione, ogni azione necessita di manovre di disinfezione per procedere all’operazione successiva e rimanere nel protocollo» Chi viene ricoverato in quel reparto?
«I pazienti che necessitano di supporto respiratorio, che va dalla somministrazione di ossigeno con “occhialini” fino alla “cpap”. Oltre, ci pensa un altro gruppo di “soldati”, il personale delle terapie intensive, dove si ricorre a intubare e assistere pazienti con manovre di ventilazione invasiva che necessita la sedazione del malato».
Che faccia ha il Covid-19? «Ha la faccia di quell’80enne che mi guarda confuso sotto il casco della cpap. Di quella signora che chiama la figlia e non si fa toccare da nessuno, ha la faccia di quel ragazzo che dopo 12 giorni di terapia intensiva finalmente sta meglio e mano a mano che gli tolgo qualche presidio, prima un venflon, poi “l’arteria” e il sondino lui mi ringrazia, ha la faccia grigia di chi oggi non ce l’ha fatta, o quella rossa per la febbre troppo alta. Ha la faccia del mio collega che per fare aderire meglio la mascherina si è tagliato barba e capelli. Ha la faccia della mia amica che riconosco solo dagli occhi. Il sudore e la sete, ma non si può bere. Ha la faccia di quel medico che non è abituato a prendere quella decisione e non l’avrebbe mai presa se non ci fosse il coronavirus»
Cosa si sente di suggerire? «Non dimenticate la nostra professione, siamo il personale meno pagato d’Europa ma siamo il più ricercato all’estero, soprattutto se nel nostro caso abbiamo studiato in università italiane come la Bicocca. Rispettateci anche quando tutto questo sarà finito, non sfasciate il pronto soccorso, perché non smetteremo di lavorare se lo fate, faremo solo molta più fatica. Non giudicateci se siamo stanchi, abbiamo mani veloci, pulite e delicate anche quando è notte e fuori fa freddo e dobbiamo andare senza sapere cosa ci aspetta».
L’appello «Non dimenticateci e portateci rispetto anche quando tutto questo sarà finito»