«Così isoliamo i casi sospetti per curare qui i nostri anziani»
La Fondazione Gusmini di Vertova è in prima linea La direttrice sanitaria: senza tampone, pazienti nel limbo A casa ci sono 91 dipendenti su 250: molti sono ammalati
«Guardi, è già la terza volta che ho dovuto creare delle zone di isolamento. Le prime volte con casi certi, con un tampone positivo o per un contatto con un caso certo, oggi di isolamento per i cosidetti casi sospetti». Melania Cappuccio non è un poliziotto né un sindaco. Medico geriatra, è il direttore sanitario della Fondazione Cardinal Gusmini di Vertova. La chiama «terra di mezzo», quella dove ci sono gli anziani, i malati di Alzheimer e non solo, «i più fragili che non devono andare in ospedale, se vogliamo che resistano».
Sono malati non conosciuti, perché restano nel limbo dei casi di coronavirus «altamente sospetti», come li definisce la dottoressa. «Li curiamo qui. Non sappiamo se sono veramente positivi, perché i tamponi non vengono fatti, ma il sospetto è diagnostico, ovvero per i sintomi che presentano, e radiologico, cioè una polmonite evidente. Dalle lastre, su 5 persone 4 hanno la polmonite interstiziale bilaterale isolata o concomitante ad un focolaio broncopneumonico». È la firma del virus che non attacca solo gli anziani ma che li mette a dura prova. «Abbiamo cercato di preservare gli ospiti in tutti i modi, ma ora con l’altissima diffusibilità del virus anche loro sono colpiti. Non solo da noi. Ad esempio alla casa di riposo di Nembro, epicentro dei contagi, i decessi sono stati 24 ed è morto anche il presidente».
Ha il tono di voce di chi, pur sfinito, sa che non può permettersi di mollare. Non uno sfogo d’ira, né un crollo emotivo. «La verità, però, sì, bisogna dirla». Ha 200 ospiti e in questa emergenza in cui servirebbero più forze, la forze continuano a diminuire. «Oggi erano a casa 91 dipendenti su 250, il 30%. Molti sono ammalati, con la febbre, diversi hanno avuto un lutto in famiglia, c’è chi ha preso i tre giorni di permesso e chi è in quarantena, qualcuno ha anche paura». Solo questi dati la dicono lunga su che cosa stia accadendo in un fazzoletto di quella Val Seriana ancora al centro dei contagi, che ormai non trovano confini capaci di frenarli.
Su tre medici dipendenti, la dottoressa è l’unico in servizio. Dopo quattro giorni di febbre, non c’era altro tempo per rimettersi completamente in forze ed è rientrata: «Gli altri due medici sono a casa entrambi malati, uno è positivo perché ha fatto il tampone, l’altro non lo ha fatto. Ho altri tre medici consulenti, uno è un medico internista e geriatra in pensione e lavora da oltre un anno in Fondazione, l’altro è il mio ex medico di famiglia che viene qui a titolo di volontariato. Il terzo medico è una collega neurologa che da part- time è diventata full time, o meglio fa le ore di lavoro che servono senza guardare l’orologio. Il personale medico e infermieristico è quello più colpito». Per forza, è rientrata. Basta sentirla ricapitolare gli impegni: sabato e domenica di guardia di giorno, e di notte reperibile. Ma non è la mole di lavoro a spaventare. La paura, ancora una volta, è per il problema nel problema: «Mancano le protezioni. Ci sono le mascherine chirurgiche, che senza filtro non proteggono dal contagio, e comunque non bastano. Ce ne sono arrivate 200 con il filtro ma in una struttura grande come questa quanto possono durare? Nei reparti con i pazienti isolati, perché casi sospetti, bisogna entrare ancora più protetti, quasi come nei reparti di malattie infettive. Sono scenari che non siamo soliti affrontare, c’è ansia tra il personale ma proprio per un discorso di protezioni».
La fotografia istantanea di quanto servano e vengano consumate le protezioni è in un dato di bilancio: «In 15 giorni ho speso il 16% del preventivo annuale per i presidi, mascherine, camici. Si parla molto degli ospedali, giustamente perché sono la prima frontiera, e dei medici di base, ma pochi sanno in che condizioni stiamo lavorando anche noi. La preoccupazione è che ci siano altri contagi Con i parenti manteniamo i contatti, per informali e confortarli, ma con la carenza di personale anche questo diventa faticoso». Proprio qui, 15 anni fa, Ivo Cilesi, il pedagogista con casa a Cene, esperto di Alzheimer, contribuì a trasformare in cura il sogno della terapia della bambola. Si è scoperto che aveva delle patologie, ma anche lui è morto con il coronavirus.
Sono scenari che non siamo soliti affrontare. Con i parenti dei nostri ospiti teniamo i contatti, per informarli e confortarli, ma con la carenza di personale anche fare questo è difficoltoso Melania Cappuccio Direttrice sanitaria
Il personale «Una nostra collega neurologa da part-time è diventata “full”, non bada più alle ore»