Corriere della Sera (Bergamo)

Il rianimator­e: «Un incubo»

Angelo Vavassori, 53 anni, del Papa Giovanni XXIII Lavora in Rianimazio­ne: ha contratto il virus ed è stato ricoverato dove di solito è lui a salvare vite I sintomi, il tampone positivo, la crisi respirator­ia e la guarigione: di notte ho ancora gli incubi

- (si commuove, ndr). Maddalena Berbenni

«Di notte ho gli incubi e da poco riesco a mangiare, ma spero di tornare presto in reparto». Angelo Vavassoti, rianimator­e di Treviolo, racconta com’è guarito.

«Scusi se la chiamo ora, ma ho riposato perché di notte non riesco ancora a dormire. Ho gli incubi del casco. Sto meglio, respiro bene, ma psicologic­amente è dura». Angelo Vavassori, 53 anni, è medico in Rianimazio­ne al Papa Giovanni. Si stava prendo cura dei primi casi di coronaviru­s, quando è stato male lui. La febbre, la crisi respirator­ia, il ritorno in ospedale, ma da paziente grave. Ora è a casa, a Treviolo. «Quella domenica, il 1° marzo, avevo il turno dalle 16 alle 24. Pur avendo la febbre, sono rimasto perché credevo fosse stanchezza».

Era l’inizio del tunnel.

«In quel momento c’erano solo i 16 posti della Terapia intensiva, erano occupati 15. Ora è tutto un altro mondo, hanno ricavato posti letto in ogni buco dell’ospedale».

Cosa ha pensato quando è arrivato il primo paziente?

«Ho pensato: adesso inizia e non finirà più, ci sarà una cascata velocissim­a. Il primo paziente è arrivato il 21 febbraio, è poi deceduto. So che la sera del primo marzo stavo curando il figlio, che era nelle stesse condizioni. Da subito ho avuto la percezione che la diffusione fosse rapida».

Si aspettava così tanto?

«Sì, nella mia testa ho pensato subito che dovevamo chiudere tutto, che si doveva fare una zona rossa. Quella domenica non vedevo l’ora che il turno finisse, ma c’è un protocollo di svestizion­e da rispettare e il passaggio delle consegne. Devi farti la doccia prima con il sapone disinfet

tante e poi con quello normale. Ricordo che sentivo ancora di più la febbre, tremavo sotto la doccia».

Quando ha capito che poteva essere coronaviru­s?

«Lunedì mi sono svegliato e non avevo la febbre. La sera sono passato da zero a 38.8 in mezzora. La cosa che mi spaventava un po’ era che non mi sentivo spossato. La febbre batterica ti butta a terra, quella virale no».

E ha iniziato a sospettare.

«Non scendeva nemmeno con il paracetamo­lo. Sono arrivato a picchi di 39 e la sopportavo bene. Allora ho chiamato il medico del lavoro e mi hanno fatto il tampone: era positivo».

E poi?

«Mi sono isolato nella stanza degli ospiti, ma il venerdì ho iniziato a non respirare bene e quando la dispnea è diventata importante mi sono fatto portare da mia moglie in ospedale. Per fortuna, si era liberato un posto in semi intensiva».

Ha avuto paura?

«Sì, non mi vergogno a dirlo. Quando sono uscito di casa, ho salutato i miei 4 figli e ho pensato che non li avrei più rivisti. Il maggiore si è accorto di quel saluto speciale».

Come ha vissuto in ospedale da paziente?

«Ho riscoperto soprattutt­o gli infermieri, gente che conosco benissimo, di cui però, nel quotidiano, mi era sfuggita l’umanità. Da medico ti concentri sul paziente, sulla parte profession­ale, e perdi quel lato, che invece conta. L’infermiera che entra col sorriso ti cambia la vita, come se fossi in un mare agitato e la tempesta si placasse».

Perché ha gli incubi del casco (è l’apparecchi­o che aiuta i malati a respirare e a fare guarire i polmoni, ndr)?

«Sotto il casco ci sono flussi velocissim­i di aria e ossigeno e un rumore continuo. Ti aiuta a respirare, ma ti senti soffocare. Sudi, io toccavo il viso contro il casco per evitare che le gocce mi entrassero negli occhi. Mi dovevo fare sedare».

Questa esperienza le ha cambiato la prospettiv­a?

Sì, completame­nte. E ci terrei che passasse un messaggio: l’unico modo per fermare l’escalation è stare in casa. Dobbiamo farlo, se vogliamo che le cose tornino a funzionare negli ospedali. Mia zia è stata ricoverata in questi giorni ed è rimasta un giorno e mezzo al Pronto soccorso con davanti altre 88 persone».

Com’è stato il ritorno dalla sua famiglia?

«Ho pianto lacrime per 10 minuti e mi sono liberato di tutto Ora vorrei tornare a dare una mano, ma fatico ancora a stare sulle gambe. Ho perso 6 chili di massa muscolare, non riuscivo a mangiare per gli anti virali. Ieri ho finito la cura e per la prima volta ho pranzato senza avere la nausea».

Che consiglio si sente di dare a chi è malato?

«Il covid ti distrugge soprattutt­o sul piano psicologic­o. Bisogna cercare di restare calmi, svuotare la testa dai pensieri e concentrar­si su un obiettivo: tornare a casa. Altrimenti la paura si porta via una parte della tua vita».

Il consiglio che do a chi si ammala è stare calmi e svuotare la testa dai pensieri. Bisogna focalizzar­si su un obiettivo: tornare a casa. Tutti gli altri devono capire che per fermare l’escalation bisogna non uscire. Serviva la zona rossa

Le cose importanti

Ho riscoperto grazie agli infermieri quanto conti l’umanità. Da malato un sorriso ti cambia la vita

 ??  ?? Il bentornato Angelo Vavassori con la moglie e i suoi quattro figli di 11, 14 (due gemelli) e 18 anni, nel giorno del ritorno a Treviolo. I primi sintomi, il primo marzo, il 6 è stato ricoverato e sabato 14 è stato dimesso. Nella foto più a sinistra, giovedì scorso in ospedale
Il bentornato Angelo Vavassori con la moglie e i suoi quattro figli di 11, 14 (due gemelli) e 18 anni, nel giorno del ritorno a Treviolo. I primi sintomi, il primo marzo, il 6 è stato ricoverato e sabato 14 è stato dimesso. Nella foto più a sinistra, giovedì scorso in ospedale
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