Come il virus cambierà le nostre vite
Il dialogo tra l’ateo Davide Ferrario e il vescovo di Bergamo Francesco Beschi, sulla capacità delle comunità di reagire a uno dei periodi più difficili di sempre.
Caro Vescovo Beschi, vivo a Torino ormai da venti anni e, oltre ad avere in città ancora tutti i parenti, non potrò mai smettere di essere bergamasco per cultura ed educazione. In questi giorni mi sento particolarmente a disagio. Vorrei poter prendere un treno e venire a vedere con i miei occhi quello che succede lì; ma mi devo accontentare dei giornali e dei racconti — preoccupati — degli amici. E delle poche immagini che filtrano, pudiche e ritrose come sono i bergamaschi. Ce n’è una che mi ha colpito più di tutte e che mi spinge a scriverle questa lettera, perché in qualche modo riguarda la Chiesa come istituzione, come presenza, come fede e pensiero. È quella di un carro funebre in attesa davanti al cimitero, che aspetta di consegnare il suo triste carico. La didascalia della fotonotizia dice che quaranta salme sono state «parcheggiate» nella chiesa del cimitero, perché nelle sale mortuarie di tutta la provincia non c’è più posto.
Cortocircuito
È un ateo convinto che le scrive: però anch’io in quella chiesa ho assistito ai funerali di due persone a me molte care. L’idea che un luogo del genere sia diventato di fatto un obitorio mi provoca un cortocircuito di sentimenti e di pensieri. Non sento il bisogno di un conforto religioso, ma credo che oggi più che mai dobbiamo parlare insieme per capire come sarà, una voldono ta finita questa emergenza, il senso della nostra comunità. Vorrei condividere con lei alcune riflessioni.
La prima: molti dicono che siamo in guerra, ma credo che sia un’idea sbagliata. Sono da guerra i bollettini degli ospedali e il conto dei morti, certamente. E assomiglia a un coprifuoco quello che vediamo in città. Ma fuori da questo, nulla è lontano parente di quello che hanno conosciuto le generazioni precedenti, molto spesso evocate a paragone. Noi non soffriamo fame e stenti, al massimo ci tocca fare la fila al supermercato. Non ci viene chiesto altro che di stare a casa a guardare la televisione, stare su internet, leggere un libro. In questa emergenza — salvo quello che fa il personale sanitario — non c’è nulla di eroico, nemmeno la possibilità di fare un gesto di carità o altruismo che non sia starsene a debita distanza dal prossimo. Non si può nemmeno pregare insieme. Le autorità ci chiedei «sacrifici», ma di cosa stiamo parlando davvero? Lo chiedo a lei perché il cattolicesimo fa dell’idea di sacrificio una sua pietra fondante (sulla quale personalmente dissento): ma è davvero un sacrificio, questo? O il fatto di starsene chiusi in casa senza far nulla non è invece l’ultima, ambigua frontiera di una società totalmente ripiegata sul materialismo del consumo e delle merci (quelle sì, al contrario delle persone, autorizzate a circolare sempre e più che mai)?
Incontrollabile
Da qui discende una seconda questione. Il Covid 19 non è una guerra, ma è certamente la prima volta, in decenni e decenni, che il senso di onnipotenza del capitalismo trionfante in tutto il mondo viene messo in discussione. Percepiamo, e mi sembra questa la radice più profonda dell’angoscia che si respira, che c’è in giro qualcosa di più potente di qualsiasi previsione umana e che può colpire — o ha già colpito — chiunque e dovunque, a cominciare dai poveri pensionati della Valle Seriana. Non le chiedo un pensiero su Dio e sui suoi disegni. Le chiedo se pensa che tutto questo sarà in grado di cambiare qualcosa di uno stile di vita che nella bergamasca ha spezzato una tradizione fatta di umiltà, silenzio, piccole consolazioni. Davanti a noi c’è finalmente qualcosa di più grande e incontrollabile, qualcosa che chiude insieme le chiese e — spero non si offenda — OrioCenter. Incute paura, ma ci induce anche a riflettere sul nostro posto nel mondo. Ci penseremo davvero? O consumeremo anche l’epidemia come si consumano le mode, le emergenze, le catastrofi? In una domanda: cosa potrà restare, quando tutto questo sarà finito? Quando finalmente toglieremo le bare dalla chiesa del cimitero e torneremo a essere «normali»?
Siamo in guerra? È un’idea sbagliata Sono da guerra i bollettini degli ospedali e il conto dei morti. Ma non soffriamo fame e stenti, al massimo ci tocca fare la fila al supermercato. Dobbiamo solo stare in casa a guardare la tv o leggere un libro
La radice profonda dell’angoscia C’è in giro qualcosa di più potente, di più grande e incontrollabile, qualcosa che chiude, insieme, le chiese e Oriocenter. Qualcosa che incute paura ma ci induce anche a riflettere sul nostro posto nel mondo