«Riscopriamo Alighieri, può indicarci la via»
L’ultima mostra lo scorso ottobre all’abbazia di Sant’Egidio L'eredità del pittore fornaio appena scomparso L’esigenza continua di porsi quesiti e di dialogare
Apresentare la sua mostra più recente — alla fine dello scorso ottobre, a Sotto il Monte, all’ abbazia di Sant’ Egidio - erano stati Massimo Cacciari, Maria Cristina Rodeschini, don Davide Rota, Daniele Rocchetti. Lassù sulla collina erano stati aperti due percorsi uniti dal titolo «Metamorfosi di un papa e altri paesaggi dell’anima»: uno nel piccolo oratorio esterno, l’altro dentro la chiesa romanica. Dei dodici grandi ritratti di Giovanni XXIII esposti, uno l’aveva collocato all’ingresso del suo appartamento pochi giorni fa. Poi se n’è andato. Un addio improvviso che lascia increduli e sconvolti. Privati, fra l’altro, anche della possibilità di accompagnarne la bara al camposanto. Anche lui fulminato dal nemico invisibile che da settimane ha trasformato Bergamo in un lazzaretto. Nel panorama artistico locale e nazionale Mario Giudici era un po’ un «unicum».
Nato a Clusone nel 1950, viveva a Sovere e lavorava nel suo esercizio a Endine Gaiano come fornaio, pur essendo, a detta di non pochi critici, uno che avrebbe dovuto fare solo l’artista. Era innanzitutto un uomo riflessivo e discreto che avrebbe meritato come premio per la sua generosità e semplicità tante altre soddisfazioni. Non poche gliene hanno offerte i suoi familiari, ma anche uomini di cultura che l’hanno frequentato coltivandone l’amicizia in un ininterrotto colloquio con lui. Perché Mario era un uomo che non smetteva mai di porsi quesiti, dare loro forma, ascoltare e dialogare.
Anche in questi giorni non cessava di interrogarsi su quanto vedeva attorno a sé mentre portava il suo pane (con la mascherina tra gli occhiali e la folta barba) nelle case di compaesani impossibilitati a uscire. Anche in questi giorni non smetteva di ragionare con sentimento e preghiera sul senso di tanta sofferenza, e con senso civico sulle responsabilità politiche e nostre, e poi di prefigurare le scelte che avrebbero dovuto caratterizzare il «dopo» che ora vedrà dall’ aldilà. Era un grande Mario. Credeva nella possibilità di comunicare attraverso l’arte, la filosofia, la teologia. Settimana scorsa mi parlava di Guardini e della «Laudato si’», dell’economia e della natura, cercando nessi. E la settimana precedente mi parlava di questa strana Quaresima, del mistero della Passione, dell’idea di raffigurare a modo suo una grande «Ultima Cena».
Affrontava le tele in modo agonico, quasi un corpo a corpo, spesso a terra, per provare a dire l’indicibile attraverso colori materici: grumi di carta, , gessi, cortecce, colle, stracci… , che impastava, stendeva, levigava, ripiegava, con la stessa passione con cui continuava il suo lavoro preparando il pane. Un singolare autodidatta che aveva esposto in diverse mostre anche all’estero (New York, Berlino, Pechino), ma appariva quasi più fiero di quelle nella nostra provincia, viste dalla «sua» gente.
Appunto: dalla Galleria Tadini di Lovere (dove il direttore Marco Albertario già anni fa sosteneva come «Giudici assume il compito di farsi testimone del proprio tempo») all’abbazia di sant’Egidio dove Cacciari aveva messo in evidenza l’«autentica sapientia» di Mario, capace di «spogliarsi così radicalmente del proprio io, della sovranità del proprio io, e simpatizzare tanto profondamente con la physis». Ci mancherà molto Mario: ma, quando tutto sarà finito, sarà bello ricordarsi di lui raccogliendone gli scritti, sostando in qualche luogo davanti alle sue opere, che, con la testimonianza del suo attaccamento alla famiglia, agli amici, al lavoro, alla natura, alla fede, costituiscono la sua eredità.