OLTRE I NUMERI
Non esistono trincee e non ci sono pallottole o colpi di mortaio da schivare. Ma stiamo vivendo una guerra tanto invisibile quanto concreta. A dirlo, oltre ai medici e agli infermieri al lavoro da più di un mese come se arrivassero soldati feriti con una frequenza inattesa, sono definitivamente i numeri. Perché cinquemila morti sono tantissimi, se ci fermiamo per un attimo a riflettere. Sono 161 vittime al giorno, come se per tutto il mese di marzo fossero scomparse ogni 24 ore la metà delle persone uccise nel bombardamento di Dalmine del 6 luglio del 1944, che è (o era?) la più grave tragedia collettiva vissuta dalla provincia di Bergamo negli ultimi 80 anni. Cinquemila vittime sono un paese medio piccolo che scompare completamente, sono un numero che equivale a quattro volte tutti i posti letto di Terapia intensiva operativi finora sul territorio. Cifre che corrispondono a tante storie, troppe: vite, affetti, generazioni, che in tabelle e sondaggi probabilmente non entreranno mai, ma resteranno la più grande testimonianza della trincea in cui siamo finiti senza ancora capire perché, ma con l’obbligo di chiederci in quali condizioni ci siamo arrivati. Preparati o no? Con la prevenzione o con l’improvvisazione in testa? Una guerra, per quanto sia un evento straordinario che va oltre le capacità di un sistema istituzionale, sanitario e sociale, non giustifica comunque tutto. E le domande sono un obbligo, vanno poste a ogni livello, perché i numeri non restino solo numeri.