LA FIEREZZA DI UN POPOLO
Nelle ultime settimane le cronache si sono spesso occupate dell’operosità dei bergamaschi. La città più funestata dal virus è stata anche quella che ha saputo farvi fronte con più forza e dignità, grazie al concreto attivismo espresso dalle forze più caratteristiche di queste zone: gli alpini, i volontari, gli artigiani, le tifoserie dell’Atalanta. Ma proprio l’emergenza ha reso esplicito qualcosa di cui i bergamaschi possono andare fieri. Mi riferisco al ribaltamento di un tratto antropologico della loro storia. Il lavoro è stato nei secoli un bollo di subalternità, talvolta di umiliazione, che le genti delle valli e della pianura hanno portato sulla loro pelle. Prima i contadini che partivano in cerca di speranza per Venezia, dove il bracciante bergamasco con l’abito rappezzato avrebbe dato vita alla maschera di Arlecchino. Successivamente gli emigranti, che fuggivano la durezza delle condizioni locali, emigrando in Svizzera, in Francia, in Germania. Infine il pendolarismo dei cottimisti, che, stipati nei pulmini fino dall’alba e bersagliati dalla satira di qualche comico, hanno costruito e ristrutturato le case di Milano. Poi è accaduto qualcosa che ha a che fare con la dialettica di servo e padrone di cui parla Hegel. I bergamaschi hanno saputo riconvertire in una risorsa un tratto sfavorevole. La consuetudine al lavoro è diventata attivismo, capacità di fare, autonomia, competenza. Hanno mostrato al mondo cosa significa mettersi all’opera, senza aspettare gli altri. Oggi sono nel mondo un simbolo dell’Italia che non si arrende.