Confindustria: subiremo un super attacco dalla Cina
Il 63% delle aziende dichiara di essere operativo a regime ridotto, solo il 9% funziona a pieno ritmo Il 28% è chiuso, mentre le micro (19%) lavorano
Ci si può solo immaginare con quanta fatica la quota di 296 imprese aderenti a Confindustria Bergamo abbia risposto alle domande dell’Osservatorio sull’impatto che il coronavirus avrà sul mondo imprenditoriale. Parole come cassa integrazione, difficoltà di approvvigionamento, incertezza che avevano dominato in lungo e in largo la crisi del 2008 ritornano prepotentemente alla ribalta nelle 16 pagine che riassumono i risultati del report di indagine, rivolto a realtà che raggruppano sul territorio orobico quasi 30 mila addetti. Problemi contingenti e prospettive future si fondono nel documento che si chiude con una proiezione improntata ad un cauto ottimismo.
Alla domanda: «Quando pensa che si potrà tornare al normale livello di operatività?»,il 28% del campione indica entro l’estate, il 44% fissa il termine alla fine dell’anno, mentre il 14% si sposta ai primi sei mesi del 2021. Sul sentiment dei «colleghi» industriali espresso nell’indagine, il vice presidente di Confindustria Bergamo, Aniello Aliberti, va con i piedi di piombo. «Le statistiche vanno bene, ma finché non avremo l’esatta entità della crisi, e soprattutto non avremo tempi certi sulla sua fine, non possiamo ipotizzare nulla, nessuno scenario. Anzi, ripensandoci uno ce n’è ed è che subiremo un attacco competitivo mostruoso dalla Cina».
Aliberti, presidente della Technix di Grassobbio (attiva nella progettazione e realizzazione di apparati radiografici) parla a ragion veduta: «A Shanghai siamo parte di un’azienda che serve il mercato locale e abbiamo notizie della ripresa lavorativa a pieno ritmo. Ora, ci risulta che il governo cinese darà degli incentivi alle aziende che, essendo già competitive di loro, saranno spietate nel campo dell’export. La Cina non può permettersi di perdere altro terreno, hanno soldi, pochissima burocrazia e sono più rapidi». Aliberti punta il dito in particolare sulla competitività che ha «smontato» parte della produzione medicale proprio in Italia. «Prendiamo proprio le mascherine, gli impianti italiani che le producevano sono stati dismessi perché annientati da una concorrenza insostenibile, diciamo 30 centesimi contro 1 euro, e questo spiega molte cose, compreso la difficoltà di trovarne sul nostro mercato interno». Una carrellata sull’operatività evidenzia come il 63% delle aziende dichiari di essere operativa a regime ridotto e solo il 9% funzioni a pieno regime. Il 28% è chiuso. Sono le più grandi aziende a rimanere operative, seppur parzialmente e coprendo una quota pari al 4% del totale. Le micro (19%) sono
Finché non avremo tempi certi della crisi non possiamo ipotizzare alcuno scenario Aniello Aliberti Confindustria Bergamo
Dismessi gli Impianti italiani che facevano mascherine: qui costavano troppo
in maggioranza aperte e operative al 100%. «Più che a questi dati occorre guardare al mercato. Come presidente della Piccola Industria — aggiunge Aliberti — ho evidenze che il 50-60% delle nostre aziende ha ordini vicini allo zero e le previsioni di cali di fatturato si aggirano mediamente tra il 30 e il 40%, una contrazione che annienta il potenziale produttivo e finanziario in modo netto». Per la maggior parte delle imprese, la Cassa Integrazione al momento è l’unica soluzione di supporto ai propri lavoratori, con il 70% del campione che dichiara di non aver pianificato soluzioni integrative allo stipendio. «Quanto tempo può resistere la cassa integrazione? Se manca il mercato, non c’è strumento integrativo che tenga, perché la conseguenza sarà che si crei una valanga di disoccupati. Temo — conclude Aliberti — che dopo i morti di coronavirus ci troveremo a contare un’infinita morìa di aziende e di posti di lavoro».