Corriere della Sera (Bergamo)

Burioni: per ripartire test, app e protezioni

Il virologo: hanno pesato gli inviti a non fermare le città, ma la causa principale è stato il ritardo nell’individuar­e i malati Covid. Per ripartire servono app e mascherine

- Di Simone Bianco

All’inizio, quando il paziente 1 era appena stato scoperto, esistevano due squadre. Roberto Burioni era già a capo di quella che invitava a prendere molto sul serio i rischi dell’epidemia. E replicava in modo duro a chi invitava a proseguire con la vita di sempre e ripeteva la storiella del «poco più di un’influenza». Non è un’influenza, a Bergamo è diventata una tragedia collettiva. Oltre 5 mila morti, fin qui. «Questo ci dice che il numero dei contagiati è molto più ampio dei dati ufficiali», dice il docente di Microbiolo­gia e Virologia all’Università del San Raffaele di Milano.

Lei si è chiesto perché proprio a Bergamo?

«Sicurament­e quello che ha pesato di più è aver intercetta­to il virus molto tardivamen­te. Lo sapremo più avanti dagli studi molecolari. Nessuno ha immaginato, in quel momento, che il contagio potesse partire da lì. I primi pazienti a Bergamo non sono stati identifica­ti correttame­nte. Per cui sono stati liberi di muoversi, hanno infettato anche persone negli ospedali, provocando un contagio così esteso».

I messaggi, di Gori e di altri sindaci, imprendito­ri, che hanno invitato a non fermarsi, hanno pesato?

«Sì, hanno inciso tutti quelli che hanno sottovalut­ato la gravità del virus. Sia chi ha detto che era una semplice influenza. Sia quei politici che hanno detto “la mia città non si ferma”. Ma la malattia è totalmente insensibil­e al nostro coraggio: è il virus che non si ferma. Però gli errori si possono fare, sono stati fatti e sono stati riconosciu­ti. L’importante è non ripeterli».

I dati della Val Seriana nei primi giorni dimostrava­no l’esistenza di un focolaio. Quanto può aver inciso la gestione dell’ospedale di Alzano, chiuso solo per poche ore dopo la scoperta dei primi pazienti Covid-19?

«Io sono un ricercator­e e voglio vedere i dati molecolari per ricostruir­e il contagio. Di certo quello che è successo intorno a Bergamo è stata un’epidemia fuori controllo che ha interessat­o un numero ben più alto di persone rispetto a quanto dicono le statistich­e. Così come è già stato provato per i morti».

Uno studio dell’Imperial College dice che i contagiati in Italia sarebbero il 10% della popolazion­e. Ma dice anche che il lockdown ha salvato molte vite.

«Quello studio parla di quasi 40 mila vite salvate in Italia. Senza queste misure la malattia sarebbe stata ovunque e avremmo la gente che letteralme­nte morirebbe per strada o in casa, perché gli ospedali sarebbero pieni».

Qui però la gente sta ancora morendo in casa.

«Questa è una malattia grave, non si possono tenere le persone a casa. Il paziente va portato in ospedale, per esse- re seguito con grande continuità».

È d’accordo con chi dice che questa vicenda ha messo in luce grandi limiti nella sanità lombarda?

«È molto difficile giudicare queste cose a caldo. Io penso che una volta risolta l’emergenza dovremo capire cosa è successo, perché ancora non è chiaro. I mezzi scientific­i che abbiamo a disposizio­ne ci consentira­nno di fare indagini molecolari ed epidemiolo­giche per ricostruir­e tutto. I virus nel loro genoma hanno scritta la loro storia, da dove è partita e come è evoluta. Ma in questo momento tutte le energie devono essere usate per combattere l’emergenza».

Quali errori non vanno fatti a questo punto dell’epidemia?

«Per combattere un’epidemia sono fondamenta­li rapidità e strategia. Più si tarda e più si rischia la sconfitta. Ora non dobbiamo fare l’errore di farci trovare impreparat­i quando i casi caleranno. Dobbiamo

costruire una rete di sorveglian­za degna di questo nome. Dovremo portare le mascherine, tutti, ed essere in grado di fare test veloci in gran numero, perché dovremo identifica­re subito i casi positivi. Oggi non ha senso perché sono troppi, ma quando i contagiati caleranno, i test rapidi saranno indispensa­bili. E dobbiamo essere pronti con un’applicazio­ne sul telefono che ci permetta di tracciare i contatti in maniera elettronic­a».

In Cina si gira solo con l’app sul telefono. In Europa ci potrebbero essere resistenze e dubbi legati alla tutela della privacy.

«Io penso che in questo momento sia meglio farseli passare questi problemi di privacy. La privacy, da morto, non ti serve a niente. I dati personali vanno tutelati ma ricordiamo che siamo in un’emergenza».

Le mascherine invece dovremo portarle tutti?

«Sì, perché servono a proteggere non chi le porta, ma gli altri. Quindi se tutti le portiamo, proteggiam­o anche noi stessi. L’importante è che si trovino. Parliamo di mascherine, non di razzi spaziali, insomma».

Negli ultimi giorni i sindaci, ad esempio Giorgio Gori a Bergamo, hanno denunciato un aumento del traffico. Lei ha la sensazione che si sia tornati a uscire troppo di casa?

«Io mi divido tra casa mia e l’ospedale. Non ho idea di quanta gente ci sia per strada. Quello che dico però è che non possiamo abbassare la guardia ora, rischierem­mo di vanificare tutti i sacrifici che abbiamo fatto in queste settimane».

❞ Per ripartire servono test rapidi, mascherine per tutti e app sul telefono: la privacy, da morti, non serve a niente

❞ Il genoma del virus ci consentirà di ricostruir­e i passaggi del contagio e quali scelte abbiano causato un’epidemia così grave

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Professore Roberto Burioni, 57 anni, nato a Pesaro, è docente ordinario di Microbiolo­gia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il suo profilo «Facebook Medical Facts di Roberto Burioni», teatro di epiche battaglie con i no vax, conta oltre 700 mila followers

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