«La nostra poetica? Essere liberi»
Passano da un genere all’altro senza tabù Ritratto del giovane gruppo teatrale Oyes
Il loro nome è nato da un gioco: Oyes come dallo spagnolo sentire/ascoltare e dall’americano oh yes, un modo per caricarsi quando le cose funzionavano. E le cose hanno funzionato, perché Oyes è una delle giovani compagnie più quotate sulla scena italiana: ha vinto premi e bandi (Next, In-Box, Forever Young/ La Corte Ospitale, Hystrio, Cariplo) e, dal 2018, è riconosciuta dal Mibac come impresa di produzione under 35. A raccontarci chi sono è Stefano Cordella che, dal 2014, si occupa della regia e della drammaturgia dei loro spettacoli, fortemente improntati su un lavoro collettivo.
Come è nata la compagnia Oyes?
«La maggior parte di noi era in classe insieme all’Accademia dei Filodrammatici. Una volta diplomati, l’Accademia dava una Borsa di lavoro, ovvero la possibilità di vincere un premio in denaro presentando uno spettacolo. Fu l’occasione per cominciare a lavorare al nostro “Effetto Lucifero”, nel 2010. Così nel 2011 è nata ufficialmente la compagnia».
Come si potrebbe definire la vostra poetica?
«La nostra poetica è tendere ad avere una maggiore libertà possibile nel confrontarci con i diversi linguaggi della scena, senza alcun tipo di pregiudizio. Ogni volta che abbiamo cercato di definire una poetica ci siamo resi conto che ci precludevamo alcuni di questi linguaggi. Non vogliamo mettere uno stile prima del contenuto».
Quali temi vi stanno più a cuore?
«Nei primi due lavori, “Effetto Lucifero” e “Luminescienz”, eravamo legati a un realismo quasi cinematografico; Östlund e Lanthimos sono i miei registi di riferimento. Nei successivi la trama è diventata un pretesto per raccontare temi e personaggi. Ci interessano soprattutto la crisi dell’uomo contemporaneo, il suo rapporto con il passato, la paura del futuro e le dinamiche che non riesce a comprendere. Da qui l’amore per
Anton Cechov».
Che rapporto avete con i classici?
«Fondamentale. In tutti i nostri lavori c’è qualcosa di biografico, ma filtrato dal rapporto con un testo classico, come abbiamo fatto con Cechov per “Vania” e “Io non sono un gabbiano”, con Koltès per “Schianto” e faremo con Goncarov per “The Oblomov Show”: doveva esserci un’anteprima ad aprile a Rubiera e un debutto estivo, ma al momento è tutto bloccato».
Quali i vostri punti di riferimento?
Un’esperienza fondamentale sono stati i seminari di Prima del Teatro a San Miniato: lì ho capito il potenziale contemporaneo dei classici, da “Amleto” a Cechov, Ma importanti sono stati anche l’incontro con Declan Donnellan, a Venezia, per il lavoro su Shakespeare, con Carmelo Rifici per il rapporto con gli attori, con Daria Deflorian per come utilizza l’autonarrazione filtrandola con un personaggio, con Claudio Tolcachir sempre per il lavoro sul personaggio che non smette mai di mettersi in discussione e si nutre della tua storia».
Quali sono gli spettacoli del cuore?
«“Il caso della famiglia Coleman” di Tolcachir, “Guerrilla” del Conde de Torrefiel, “Scavi” di Deflorian/Tagliarini, “La vita ha un dente d’oro” di Frongia/Morganti, “L’abisso” di Davide Enia, “Il gabbiano” di Rifici. Sono tutti spettacoli lontani dal nostro modo di fare teatro, ma che hanno saputo lasciarci qualcosa dentro».
Come trascorrete questo tempo sospeso?
«Leggendo, facendo videochiamate, dove però parliamo poco di teatro, più di sport o di quel che abbiamo cucinato. Forse non è male sfruttare questo periodo per sentire e far sentire la mancanza del teatro. Trovare sì delle forme di presenza, ma non esserci a tutti i costi».