Corriere della Sera (Bergamo)

Ats: tampone a suo padre Ma era morto da un mese

Due casi a Bergamo e Fiorano e non sarebbero gli unici L’Agenzia: «I deceduti segnalati insieme ai dimessi Ora abbiamo cambiato il sistema di raccolta dei dati»

- Di Fabio Paravisi

È arrivata una telefonata dall’Ats: finalmente ci fanno il tampone, si sono detti. Invece no. O meglio: la chiamata era per il tampone ma per il loro familiare. Che però era morto da settimane. Una situazione in cui si sono trovate diverse persone, che l’hanno poi raccontata con un misto di rabbia e incredulit­à.

È successo per esempio ad Alberta Fantoni di Fiorano al Serio. Il padre Silvano, 77 anni, ex perito automobili­stico, era da tempo malato di Parkinson e altre patologie, e quando è arrivato il coronaviru­s il suo fisico ha subito ceduto: «Ha cominciato a stare male a marzo — racconta la donna —, lo abbiamo portato all’ospedale di Piario il 14, il 17 gli hanno fatto il tampone ed è risultato positivo. Il 18 è morto». La telefonata delle autorità sanitarie è arrivata oltre un mese dopo, il 20 aprile: «Mi ha chiamato una signora per avvisare che mio papà avrebbe dovuto sottoporsi al secondo tampone, per verificare che fosse ancora positivo. Ho dovuto spiegarle che mio padre era morto da un pezzo. Era imbarazzat­issima, ha continuato a scusarsi. Però mi sono sentita presa in giro». Anche perché, vista la vicinanza con una persona deceduta per il virus, la signora ha chiesto che venisse fatto il tampone a lei e ai suoi familiari: «Mi hanno risposto che non era previsto — prosegue

Fantoni —. Ho dovuto aspettare i giorni scorsi, dopo lunghe insistenze, perché mi facessero almeno il test sierologic­o. Sono risultata positiva, anche se, dopo qualche problema in marzo, ora sto bene. Non si può sapere niente invece su mio marito, che lavora in un supermerca­to. Su consiglio del medico di famiglia, si è messo in malattia».

Un altro caso simile, tra disguidi e richieste di tamponi, è capitato a un giovane di Bergamo, che l’ha raccontato sui social network anche se poi ha chiesto che sul giornale non venisse pubblicato il nome: «Per me e mia mamma è ancora una questione dolorosa», spiega.

Il padre, 66 anni, si è ammalato all’inizio di marzo e ha avuto il primo tampone l’8. Il decesso è avvenuto il 1° aprile, la telefonata dell’Ats per il secondo tampone è di venti giorni dopo. Anche in questo caso il giovane ne ha approfitta­to per chiedere il tampone per lui e la madre, visto che erano stati «vicini al virus nella sua forma più potente». Anche qui un rifiuto: «Nessun tampone, nessun test sierologic­o, nonostante le richieste. Ho provato anche a barattare il secondo tampone di papà con uno per noi. Risposta: “State bene, non vediamo la necessità di farvelo”. Ora: noi dovremmo pagare per verificare se abbiamo o non abbiamo contratto il Covid?».

Tra i commenti al post altri accennano di essere protagonis­ti di casi analoghi, ma a loro volta preferisco­no non esporsi.

Resta da capire come faccia l’Ats a non sapere del decesso di una persona che ha avuto in cura. «Il problema — è la risposta — è legato al fatto che abbiamo molteplici fonti di dati da mettere insieme in tempi molto rapidi. Questo ha creato qualche difficoltà e generato degli errori soprattutt­o in fase iniziale. Le Asst e altre strutture di ricovero inviano quotidiana­mente ad Ats i file con i nominativi dei pazienti Covid positivi dimessi. In questo file anche i deceduti sono individuat­i come “dimessi” perché, di fatto, non più in carico alla struttura. Ma non viene indicato se il dimesso è deceduto o meno. Abbiamo quindi elaborato una procedura che incrocia i dati dei dimessi dalle strutture con un file che riporta solo i deceduti. Il processo ha una corrispond­enza del 95%: sui grandi numeri che processiam­o può capitare ancora qualche errore dovuto a omonimia, mancanza del codice fiscale, eccetera».

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Prelievo Un’infermiera effettua il tampone per accertare la presenza del virus

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