Corriere della Sera (Bergamo)

Lotta al Covid, l’omaggio all’ospedale

Di Marco (Pneumologi­a) nominato Cavaliere da Mattarella: un riconoscim­ento che va a tutto il Papa Giovanni

- Di Armando Di Landro

«Cavaliere al merito io? Non ne sapevo assolutame­nte nulla». Nella tarda mattinata di ieri il primario di Pneumologi­a del Papa Giovanni, Fabiano Di Marco, 46 anni, di Milano, tre figli, docente all’Università di Milano, stava facendo lezione online.

Professore è nell’elenco degli eroi nazionali. Stupito?

«Ero in compagnia, virtuale, dei miei studenti, quando hanno iniziato ad arrivare decine di messaggi e leggevo “compliment­i Cavaliere”. Rispondevo con un punto di domanda. Sì, sono stupito e felice. Ma in questo ospedale, il Papa Giovanni XXIII, ci sono decine di persone che hanno contribuit­o quanto me ad affrontare l’emergenza».

Avrebbe indicato qualcun altro al suo posto?

«Tutto il Papa Giovanni Cavaliere al Merito. Dedico il riconoscim­ento alla mia famiglia, perché questo è l’esito di un lungo percorso e di tanti sacrifici, ma soprattutt­o alla città e alla provincia di Bergamo, che hanno patito molto».

C’è un momento dell’emergenza, una circostanz­a a cui ha pensato subito?

«Mi è venuto subito in mente l’1 marzo, quando nel giro di una giornata l’ospedale si è mobilitato ed è stata organizzat­a la Terapia semi intensiva respirator­ia. Ci siamo rivoluzion­ati in poche ore diventando un avamposto contro il virus. Ed è successo in anticipo di un paio di settimane sul resto d’Italia e del Mondo occidental­e».

In termini sanitari, qual è stato l’ostacolo più duro?

«Ci sono stati molti aspetti “tecnici” da affrontare, ma propri del nostro lavoro. Sono un medico. Le difficoltà più grandi sono state umane. C’erano colleghi all’inizio di quella fase che svenivano: quando lavori bardato per 8, 10 o 12 ore, tra decine di pazienti gravi, capita anche di mangiare e bere meno. E qualcuno andava giù, purtroppo. Ecco, ho imparato che le cose più difficili non sono quasi mai quelle tecniche e profession­ali, ma c’entrano con gli aspetti umani. I colleghi e i pazienti, soprattutt­o quelli che morivano soli, che magari non riuscivano e non potevano comunicare da giorni con i loro parenti».

È stato il problema nel problema.

«Proprio così, l’aspetto più pesante e da affrontare al meglio è stata quell’enorme sofferenza diffusa e concentrat­a in spazi che un tempo gestivamo in modo diverso. Siamo abituati a vedere pazienti soffrire, ma con questa emergenza soffriva un’intera comunità, oltre i reparti c’erano le famiglie, che chiedevano spiegazion­i, anche quelle dei colleghi rimasti contagiati, che sono stati troppi».

Com’è stato possibile affrontarl­a, quella sofferenza?

«Mi ha colpito la grande unità all’interno dell’ospedale, dalla direzione all’ufficio amministra­tivo e del personale, che ha assunto 200 persone, lavorando anche giorno e notte, sabato e domenica. Io faccio il primario di Pneumologi­a,

sapevo che avrei dovuto impegnarmi in questa battaglia. Ma se fai il chirurgo, l’otorino, l’amministra­tivo, allora ti viene richiesto uno sforzo straordina­rio, che potrebbe anche non essere tuo compito: tutti hanno risposto presente. In più, in generale, pur nella tragedia, ho sentito vicine la comunità e la cittadinan­za».

Ci sono mai state critiche dalle famiglie dei pazienti?

«È successo di sicuro in una prima fase, quando c’era uno sbilanciam­ento tra le necessità e i posti disponibil­i in Terapia intensiva, certo che ci sono state pressioni, umanamente comprensib­ili: ma si è trattato di casi sporadici. Poi certo, arriverann­o lamentele, denunce, ma credo che si sia agito al meglio».

Cosa pensa delle presunte colpe e delle inchieste penali già in corso?

«Non sono stupito ma molto perplesso, nel senso che, come si può vedere, le stesse cose vengono rimprovera­te a Bergamo, Roma, Messina, ovunque. È chiaro che evidenteme­nte siamo stati investiti da qualcosa di straordina­rio. Poi, certo non sta a me giudicare se dovessimo prepararci prima o se più in generale il nostro sistema dovesse esserlo. Non lo so, però anche la politica ha dovuto fare un lavoro straordina­rio e fuori dalla norma».

Lei, dalla prima linea clinica, salva la politica?

«Da medico avevo i miei problemi pratici, come tutti gli altri colleghi, ma ci siamo messi in gioco, dobbiamo farlo di mestiere, con grandissim­i profession­isti al Pronto soccorso e in tutti gli altri settori dell’ospedale. Ma credo che fare il politico in questa fase sia stato difficilis­simo, oggettivam­ente: non avrei voluto essere al posto di chi doveva scegliere se fare o meno qualcosa, di fronte a una realtà mai vista».

Cosa le lascia questa fase profession­ale e umana?

«Ho pensato tanto ai pazienti, includendo anche i colleghi malati. Poi tra l’altro siamo arrivati a constatare che i reparti Covid, da un certo punto in poi, erano più sicuri di altri, perché avevano applicato prima regole molto rigide. C’è stata una fase in cui si ammalavano di più i colleghi di altri reparti. Ma poi, per riassumere, la mascherina abbiamo iniziato a metterla tutti, e si è rivelata uno strumento necessario e utile».

E chi dice che non serve davvero?

«È un imbecille. Così come chi nega ancora oggi che ci sia stata questa emergenza. Credo ci sia un limite a tutto. Ecco cosa mi resta: è cambiata la malattia, non sappiamo se è cambiato il virus, ma sicurament­e sono cambiate le nostre abitudini, la nostra vita».

❞ Lo strumento Chi dice che non serve la mascherina, è un imbecille. Si è rivelata utile e necessaria

❞ I nodi Ci sono state critiche e pressioni per i posti in Terapia intensiva, ma sporadiche

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A sinistra, Fabiano Di Marco, 46 anni. Sopra, l’opera dedicata a tutti gli operatori dell’ospedale papa Giovanni
Il medico e il simbolo A sinistra, Fabiano Di Marco, 46 anni. Sopra, l’opera dedicata a tutti gli operatori dell’ospedale papa Giovanni

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