«Dai problemi intestinali al decesso: l’ospedale arrivò a chiedere aiuto a noi»
«C’è stato un momento in cui dal Papa Giovanni ci hanno chiamato chiedendoci se potevamo dare una mano e trovare noi un posto in terapia intensiva, in qualsiasi altro ospedale, perché lì in quella fase non ce n’erano più»: il dolore di Cristina Longhini, e la tragedia del padre Claudio, di 65 anni, di Bergamo, racchiudono tante caratteristiche di un’emergenza che, per più giorni, è andata oltre le capacità del sistema. «Mio padre aveva iniziato a stare male il 2 e 3 di marzo, con febbre, dissenteria. Il medico di base sosteneva che si trattasse di un virus intestinale, di prendere tachipirina e antibiotici. Ma dopo una settimana mio padre stava ancora male. Un giorno è svenuto in bagno. E nonostante le chiamate al 112, gli operatori ci rispondevano che non sarebbero usciti, senza una crisi respiratoria». Un altro medico di base di città si è offerto di andare a visitare Claudio Longhini. La sua ossigenazione era bassissima, a 65, e a quel punto un’ambulanza era uscita, arrivata da Monza e Brianza. Dopo il ricovero al Papa Giovanni era passata una settimana prima che la famiglia sapesse qualcosa. «Hanno chiamato mia mamma dicendo “suo marito è peggiorato”, era il 18 marzo. Il 20 è morto, mi hanno avvertito due ore dopo l’orario indicato nella cartella clinica». Cristina Longhini ricorda di aver dovuto fare il riconoscimento del papà, «dopo aver aspettato 4 ore fuori dall’ospedale. Quel giorno la salma mi è stata mostrata alle 14. Non era composta: mio padre era uscito da un’embolia, aveva lacrime di sangue, una persona davvero irriconoscibile. E in quel momento un’infermiera è arrivata a incalzarmi: “Guardi quanti carri funebri ci sono dietro di lei”». Una testimonianza straziante, dall’inizio alla fine, un incrocio tra ospedali al collasso, medicina territoriale impreparata, difficoltà a comunicare. Poi il decesso. E ora le denunce.