Alzano al centro dell’indagine
Sull’ospedale elementi più solidi per uno sviluppo penale. Zona rossa, difficile configurare ipotesi di reato
Sono rientrati da Roma con la convinzione, sempre più netta, che sulla zona rossa, anche volendo configurare un reato, sia davvero difficile dimostrare un nesso di causalità tra la mancata istituzione della zona rossa e i decessi nella bassa Val Seriana, che erano già in corso a fine febbraio. Per i magistrati della Procura di Bergamo il fronte più concreto, nell’ambito delle indagini, resta quello dell’ospedale di Alzano, riaperto dopo tre ore di chiusura. C’era la contrarietà del direttore di presidio e c’erano, ricoverati da giorni, pazienti con sintomi sospetti. Codogno è rimasto chiuso tre mesi.
È costellata di interrogativi l’inchiesta della Procura di Bergamo, inedita per genere e dimensioni, sulla gestione dell’epidemia da coronavirus. Domande che arrivano dall’esterno del palazzo di piazza Dante, e in particolare dai parenti delle vittime, ma anche dall’interno, su cui riflettono cioè gli stessi magistrati. A ogni dichiarazione il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota sottolinea che «bisogna tenere conto della situazione in cui i fatti si sono verificati». Situazione in cui sembra che tutta la catena di comando, dal Governo ai Comuni, passando per la Regione Lombardia, si sia trovata spiazzata di fronte alla portata del contagio e alle sue conseguenze.
Il metodo
Un’inchiesta che, più di altre, si sviluppa necessariamente in tre fasi: una ricostruzione dei fatti più dettagliata possibile, grazie ad articoli di stampa, atti dei Comuni, della Regione e del Governo, dell’Ats, degli ospedali e delle Rsa, dichiarazioni di amministratori e politici; una valutazione sulla natura degli atti assunti o non assunti, dalle delibere e le ordinanze regionali, fino ai decreti, e infine una valutazione sulla possibilità che certi provvedimenti (anche non assunti come nel caso della zona rossa) possano configurare un reato, o meno, e siano quindi «sindacabili in sede penale» o no. Al momento i pm sono ancora nella prima, delle tre fasi.
Zona rossa
È chiaro, però, che alcune valutazioni si fanno anche in divenire, durante il lavoro di ricostruzione. E dopo aver ascoltato i vertici della Regione e del governo ci si chiede, soprattutto fuori dal palazzo: ci sarà mai una responsabilità penale sulla zona rossa? Il procuratore aggiunto Rota ha dichiarato ieri, come già aveva detto al Corriere venerdì, che «è questione complessa» stabilire se si possa configurare un reato. Le indiscrezioni, dal fronte investigativo, propendono più per il «no». L’impressione che gli inquirenti traggono dagli atti e dalle dichiarazioni acquisite è che il provvedimento, che fosse della Regione o del Governo (è emerso che entrambi potevano applicarlo, volendo), era comunque discrezionale. E quindi, quella scelta di «non fare» può anche essere definita nel peggiore dei modi sotto il profilo politico, o addirittura etico, ma potrebbe non costituire una violazione in ambito penale.
L’ospedale
Nettamente diversa, invece, la questione sull’ospedale di Alzano. Su questo punto chi indaga analizza ai raggi x tutte le norme e i protocolli sanitari. In questo caso la natura dell’atto assunto, e cioè far riaprire un pronto soccorso, è meramente amministrativa, un «ordine» dalla direzione regionale Welfare alla direzione ospedaliera e in accordo tra le parti (sembra), il tutto per una struttura da cui erano passati i primi due contagiati ufficiali della provincia di Bergamo, e in cui la stessa Asst aveva già rilevato da metà febbraio la presenza di più ricoverati, provenienti soprattutto da Nembro, con sintomi sospetti. Per di più con una lettera del direttore di presidio, già balzata alle cronache, che diceva: «È evidente che il pronto soccorso così non può restare aperto». È questo il fronte che, più di altri agli occhi dei pubblici ministeri, sembra avere delle gambe per camminare sul fronte della «sindacabilità penale».
Le Rsa e i medici
Dalla riservatezza dei pm filtra invece molto poco sulle Residenze socio assistenziali e sui morti in eccesso rispetto agli anni scorsi: 1.300, in provincia di Bergamo, tra gennaio e aprile, secondo i dati acquisiti dalla Procura. Il lavoro di accertamento è mastodontico: prendere atto delle normative, per poi andare a verificare se ogni struttura le ha applicate e fino a che punto l’ha fatto. Ma è un lavoro che, a prescindere dall’applicazione delle norme, pone un’altra domanda: le Rsa erano pronte ad affrontare l’emergenza o erano state messe nelle condizioni di farlo? Prima ancora delle singole responsabilità direttive o manageriali locali, l’inchiesta si scontra sempre con punti di domanda che riguardano l’organizzazione e la preparazione del sistema sociosanitario. Vale lo stesso per i medici di base, che per più di un mese hanno lamentato un’assoluta carenza di dispositivi di protezione, mascherine, camici, guanti. Sono oggettivamente elementi critici dell’emergenza che chiamano in causa l’Agenzia di tutela della salute, ma a che punto sia l’inchiesta su questo fronte non è noto. Senza dimenticare che, oggi più che mai, la macchina della Procura è ingolfata: più questioni aperte in un’unica inchiesta, segnalazioni a raffica dall’Inail, esposti sui singoli decessi in cui gli stessi denuncianti puntano il dito contro «un sistema inadeguato».