COVID-19, MILLE «SE» E GIUSTIZIA IN SALITA
Ma sentir dire «rifaremmo tutto» è insopportabile
Ese venerdì 21 febbraio, una volta accertato che il coronavirus non era solo quell’infezione misteriosa e folkloristica che aveva costretto due sfortunati turisti cinesi a ricoverarsi allo Spallanzani di Roma, ma che parlava ormai con disinvoltura anche il dialetto di Codogno, si fosse deciso di «chiudere» la provincia di Lodi e la città di Milano, destinatarie quantomeno di un fittissimo pendolarismo lavorativo? E se domenica 23 febbraio, ulteriormente accertato che il virus aveva fatto la sua comparsa anche all’ospedale di Alzano Lombardo (verosimilmente non bazzicato dagli abitanti di Codogno…), si fosse deciso — per le medesime ragioni — di isolare almeno la bassa Valle Seriana e la città capoluogo (ricordando che da quello stesso giorno l’episcopato lombardo vietava la celebrazione delle Messe con i fedeli in tutta la Regione, dall’Oltrepò Pavese all’ Alta Valtellina)? E comunque, se fin da quella data fosse stato imposto — e non snobbato…— l’uso massiccio delle mascherine e di altri dispositivi di protezione (certo, utilizzando le dotazioni che Regione Lombardia avrebbe dovuto avere in magazzino in forza del Piano pandemico regionale approvato fin dal 2006 e poi successivamente riaggiornato, o quelle che ci si doveva correre a procurare immediatamente dopo che a fine gennaio era stato proclamato lo stato di emergenza…)?
E se il Piano pandemico nazionale, espressamente focalizzato sul Covid-19 ed elaborato dopo che a metà gennaio si era iniziato a sapere qualcosa di ciò che stava accadendo in Cina, fosse stato condiviso con i soggetti regionali tendenzialmente anche se non esclusivamente preposti — con la pasticciata riforma costituzionale del 2001 — alla tutela della salute pubblica ?
E se protocolli più lungimiranti avessero imposto, almeno da gennaio, di andare più a fondo nell’ indagare le «strane» polmoniti rilevate nell’inverno, proponendo un’azione coordinata ed orientata a valutare che non si trattasse proprio del virus cinese, di cui si era preconizzato — al di là dei tanti «qui non arriva!» da bar — che avrebbe impestato l’universo intero, Groenlandia non esclusa?
E se fosse stato efficacemente suggerito fin da subito un quid di distanziamento sociale, senza misure ridicole come la chiusura dei bar alle 18? E se, non diciamo le metropolitane o i treni pendolari, almeno le funivie — le funivie!: 40 sciatori in 10/15 metri quadri — fossero state fermate il 23 febbraio, pur a scapito delle settimane bianche di Carnevale?
E se il sistema di prevenzione, e se i medici di base, e se i reparti ospedalieri, e se le case di riposo, e se, e se, e se: sono centinaia le misure prese o mancate sulle quali ci si potrebbe interrogare in ordine alla probabilità statistica che abbiano fatto, o non abbiano evitato vittime del virus; ed è ovvio che si tratta anche di misure di complessa attuazione, ovvero potenzialmente dannose sotto altri profili, non potendo dimenticare che
— con la bussola orientata esclusivamente sulla salute pubblica — dovremmo chiudere l’Ilva in 24 ore, escludere qualunque (dico, qualunque) forma di circolazione motorizzata nella Pianura padana, tenere a terra tutti gli aerei, e così via: ma non lo facciamo, perché — collettivamente — esercitiamo opzioni politiche, fra le quali vi è l’accettazione più o meno consapevole che non vi siano mai scelte a rischio zero.
Queste centinaia di possibili interrogativi sembrano tuttavia catalizzarsi — potenza evocativa del nome? luogo esemplare, e «semplificato», dello scontro al massimo livello fra due schieramenti di diverso colore politico? — sul solo problema della zona rossa nei Comuni di Alzano e Nembro, non adottata alla fine della prima settimana di marzo, e inglobata in una più scolorita «zona arancione» imposta all’intera regione.
Forse perché è stato evidente che si è trattato di una scelta difficile e dibattuta, carica di valutazioni di sistema e di implicazioni sociali ed economiche (e non particolarmente «invocata» da nessuno, visto che il sentimento corrente era tutt’al più di disponibilità a subirla: che è ben altra cosa…), la questione sembra divenuta la «madre di tutte le inadempienze», e la causa pressoché monofattoriale di ciò che è accaduto in Bergamasca. Storie tragiche, che tanti superstiti raccontano accadute purtroppo ai loro congiunti, vengono accostate alla questione della mancata zona rossa, anche quando non hanno obiettivamente niente a che fare, e parlano semmai di un sistema sociosanitario travolto da una enorme ondata di piena (nel corso della quale possono essersi ovviamente manifestate anche smagliature colpevoli, da accertare doverosamente ma da valutare nel contesto della situazione).
La «giustizia» rischia di avere la sua prima vittima proprio nella «verità» che le si vuole affiancata, per una serie di ragioni psicologiche e strutturali su cui ho già cercato di attirare l’attenzione; in termini speculari, è invece insopportabile sentire ripetere — a tanti livelli — «rifaremmo le stesse cose»: come se in questi quattro mesi non avessimo, tutti quanti, acquisito uno straordinario bagaglio di esperienza. E se errare è umano, perseverare è stupido, prima ancora che diabolico.
❞ E se si fossero indagate le strane polmoniti? E se si fossero usate subito le mascherine?
❞ Tante le questioni, ma si parla di zona rossa come se fosse l’unica causa del disastro: non è così