L’epidemia raccontata con gli scatti
I supermercati vuoti, le lacrime dell’infermiera, l’esercito con le bare La voglia e il bisogno di documentare superano la paura del contagio
Il desiderio e il bisogno di raccontare attraverso le immagini, nonostante il timore del contagio. Quattro mesi di pandemia, un percorso visivo dove restano impressi volti, lacrime, le bare trasportate dall’esercito. E i colleghi morti. Professione fotografo senza immaginarsi di rivedere tanto dolore come in Sudan, in Somalia e nei Balcani.
Ho iniziato a scattare immagini a 14 anni, per passione, a 16 era un mestiere, a 19 una professione. Ho fotografato la miseria in Sud Sudan, e le atrocità nei Balcani e in Somalia, e mai avrei pensato di rivedere di nuovo tanto dolore. Qualcuno mi disse che fermavo la storia perché la fotografia riproduce il reale. Non ne sono convito, la fotografia è un’interpretazione, cogliere il dettaglio. Il Coronavirus è arrivato all’improvviso. La mia parte avventuriera voleva documentarlo, consapevole che era un fatto epocale. Quella razionale diceva: «Stai indietro che se lo buschi non ne esci!».
Il lavoro parte con i banchi vuoti dei supermercati, il 23 febbraio. Per caso, con il telefono, facendo la spesa. Poche ore dopo mi chiama il caposervizio: hanno chiuso il pronto soccorso di Alzano. Arrivo con la mascherina, qualcuno mi dice di non creare allarmismi. È l’inizio di un percorso visivo. Non sono solo fotografie, sono momenti ricchissimi di contenuto che percorrono settimane di sofferenza, e ingiustizie. Di chi deve stare chiuso in casa, chi non riesce a fare un tampone, chi non ha informazioni sui familiari nelle Rsa, chi ha parenti in terapia intensiva e non può vederli. Chi ha cari che muoiono ma non può salutarli e seppellirli. Ci sono anche ingiustizie legate al nostro lavoro, come non poter documentare che cosa succede negli ospedali. Nelle mie fotografie non c’è nessuna denuncia, cerco di raccontare.
In questi 130 giorni, ho perso due colleghi e tre amici, oltre a molti conoscenti. Ho visto crollare infermiere e volontari. Le lacrime di Clara, infermiera al Papa Giovanni, mentre mi dice che i conoscenti di cui avevo chiesto non ce l’avevano fatta. La telefonata dell’amico delle pompe funebri che mi avvisa dell’arrivo dell’esercito per smaltire le bare.
Resta il rammarico che stasera, al cimitero monumentale, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non sia previsto un angolo per noi fotogiornalisti. Abbiamo rischiato, documentato la morte e l’umanità. E ora che questo concerto segna un po’ la fine del periodo lo dobbiamo vedere in tv.