Un applauso, e l’ospedale volta pagina
Zero pazienti Covid in Terapia intensiva dopo 137 giorni. Il primario: la forza è stata combattere il nemico uniti
La Terapia intensiva dell’ospedale Papa Giovanni XXIII non ha più pazienti covid. Ieri se ne è andato un anziano ricoverato da mesi con altre patologie e resta qualcuno entrato con l’infezione ma ora negativo. Di fatto, il virus ha lasciato il reparto che è stata la trincea della provincia più colpita, arrivando a ospitare un centinaio di posti letto. Il direttore generale Maria Beatrice Stasi, con il direttore sanitario Fabio Pezzoli e il primario Luca Lorini, ha condiviso un breve momento di raccoglimento con parte del personale. Dopo alcuni istanti di silenzio, è nato un applauso «quasi liberatorio — le parole Lorini —, ognuno lo ha fatto al suo compagno di avventura, perché la vera forza è stata quella che tutti quanti medici, infermieri, personale, tecnici si sono uniti a combattere questo nemico terribile e la vittoria è arrivata».
Aprile ha segnato un confine, come quando dopo una tempesta il frastuono della pioggia s’attenua un poco. E capisci che il peggio è passato. Ci vuole tempo, però, prima di smaltire la baraonda. Così all’ospedale Papa Giovanni XXIII se in quelle settimane s’iniziava a mettere in fila barelle tornate vuote, è solo ora, a tre mesi di distanza, 137 giorni dopo quella maledetta domenica 23 febbraio, che la terapia intensiva è definitivamente libera dal Covid. Da cento pazienti intubati dopo avere contratto l’infezione a zero positivi. Via la paura.
È un momento di gioia, ma anche di tristezza per chi non ce l’ha fatta. Proprio ieri è mancato uno degli ultimi ricoverati, 74 anni, arrivato tra febbraio e marzo e con altre patologie serie che non hanno aiutato. Restano invece persone entrate gravi e ora negative al tampone. Di fatto, il virus ha lasciato il reparto e questo significa potersi dedicare ai casi «normali» — per quanto valga la definizione in un luogo come una terapia intensiva —, alleggeriti delle protezioni più ingombranti e delle lunghe procedure anti contagio. «Finalmente ho rivisto i volti fuori dagli scafandri», si lascia andare Maria Beatrice Stasi, il direttore generale che, a poco più di un anno dall’insediamento, s’è ritrovata a fronteggiare una pandemia e che il contagio lo ha sperimentato di persona, forma lieve che tuttavia l’ha costretta all’isolamento nella fase peggiore, «quando — ricorda — ricevevo i messaggi del direttore del Pronto soccorso e la curva degli accessi non calava mai, oppure leggevo i resoconti del dottor Lorifrontate ni, che mi spiegava come riuscivano a fare fronte a tutto, quando eravamo un’ora sola davanti al virus e c’era davvero il timore di non riuscire a dare assistenza a ogni malato. Invece è stato fatto uno straordinario lavoro di squadra, che ha portato a questo risultato». In totale dalla Trucca sono passati 2.200 pazienti Covid, fra cui circa 400 vittime. In poche ore, si sono ribaltati reparti, il personale è stato formato, sono state consumate quantità fino a quel momento inimmaginabili di ossigeno. «In mezza giornata abbiamo creato una centrale con 100 metri di collegamento», è sempre Stasi.
Oggi, nell’unica unità di degenza dedicata restano 15 pazienti con sintomi che non preoccupanti. I nuovi positivi sono quasi sempre persone ricoverate per altro, che vengono sottoposte al tampone in base alla procedura. Non significa abbassare la guardia. «Abbiamo ripreso la gran parte delle attività, il 70% delle operazioni chirurgiche — prosegue la direttrice — ma gli ingressi restano contingentati e siamo pronti ad af
un’eventuale recrudescenza. È già stato predisposto un piano». Vale anche per l’ospedale di San Giovanni Bianco, che ha curato 70 persone. Cosa accadrà al presidio in Fiera dopo il 31 luglio (data di scadenza dell’ordinanza di requisizione) ancora non si sa: «Non dipende da noi, è una decisione che spetta al Governo sulla base dello stato di emergenza», risponde Stasi. Per ora gli spazi sono utili a portare avanti l’attività di follow-up, cioè le visite di controllo riservate a guariti, importanti anche per comprendere le ferite lasciate dal «nemico». Lo chiama così, Luca Lorini, il primario dei casi disperati, spesso risolti con la tecnica di cui è un luminario, l’Ecmo. Cuore e polmoni vengono messi a riposo, lavorano le macchine. Ha funzionato anche per alcuni tra i pazienti più gravi e più giovani. L’ondata ne ha portati. Chi in quei giorni annaspava è stato colpito dalla quantità e dalla complessità dei casi. E pensare che dopo Codogno era stata predisposta subito un’unità isolata. Poco dopo il primo paziente trasferito da Alzano, il 23 febbraio, è stato evidente che non sarebbe mai bastata. E in un paio di settimane è stata allestita la terapia intensiva più grande d’Europa con 92 posti letto e 12 di sub intensiva, allora, comunque, ancora non sufficienti. È stato necessario ricorrere ai trasferimenti in altre città, anche in Germania.
Nelle terapie intensive del Papa Giovanni lavorano 400 tra medici, infermieri, tecnici e operatori. Ieri, una delegazione è stata chiamata per un momento di raccoglimento, «nato in modo spontaneo e molto emozionante», riferisce Stasi. Alla presenza del direttore sanitario Fabio Pezzoli e dello stesso Lorini è stato osservato qualche istante di silenzio in memoria delle vittime. Poi, è sgorgato un applauso «quasi liberatorio — dice Lorini —, ognuno lo ha fatto al suo compagno di avventura, perché la vera forza è stata quella che tutti quanti medici, infermieri, personale, tecnici si sono uniti a combattere questo nemico terribile e la vittoria è arrivata».
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A marzo la curva degli accessi al Pronto soccorso non calava mai, c’era davvero il timore di non riuscire a dare assistenza a tutti. Invece è stato fatto un grande lavoro di squadra
Maria Beatrice Stasi
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