Fresu suona Chet Baker
«Lo incontrai giovanissimo a un festival jazz: un angelo gentile e fragile»
Un concerto in omaggio a Chet Baker: lo proporrà stasera a Villa Arconati il trombettista e flicornista Paolo Fresu, in trio con Dino Rubino (piano e flicorno) e Marco Bardoscia (contrabbasso). «È una versione più semplice e raccolta dello spettacolo teatrale “Tempo di Chet” che stavamo portando in giro prima della pandemia», spiega il musicista sardo. «Tra musiche scritte da noi e frammenti di brani registrati, racconterò aneddoti su Chet. Come l’incontro che ebbi con lui tanti anni fa, quando a un festival jazz – ero giovanissimo – venne a farmi i complimenti con grande gentilezza; forse non era scorbutico come si diceva. Poi c’è quel mio brano, “Hotel Universo”, che prende il nome da un albergo a Lucca dove ho dormito una notte con una sua foto scattata proprio lì». A Lucca l’americano Baker, morto nel 1988 dopo una vita segnata dall’abuso di droghe e alcol, fu arrestato nel ’60. «Se l’uomo aveva una vita disordinata, l’artista con la sua musica era incredibilmente ordinato, preciso, quasi chirurgico», commenta Fresu precisando che «fare la morale a un musicista non è diritto di nessuno»: «Non sta a noi sindacare sulle esistenze altrui, di certo sentendo la musica e la voce di Chet non si può non capire che era fragile, sì, ma con un cuore enorme». «Cantava e suonava come un angelo», aggiunge il trombettista, classe ’61, tra i suoi idoli anche Miles Davis.
Il jazz, in realtà, lo ha scoperto relativamente tardi, nei primi anni 80, dopo aver fatto parte della banda del suo paese e rallegrato matrimoni e feste di piazza a suon di musica leggera. Da allora lo ha studiato, insegnato, contaminato con la tradizione popolare, con suggestioni esotiche ed effetti elettronici. «Negli anni 70, era del free jazz, il jazz divenne un genere elitario, ma per un malinteso. Non possiamo dimenticarne le radici popolari: in origine si suonava per le strade, nei bar, nei bordelli, va riconsegnato alla gente». È l’intento di «Time In Jazz», festival che Fresu organizza da 33 estati in Sardegna, a Berchidda e in altre località, e a cui non ha voluto rinunciare nemmeno quest’anno. «Si è chiuso coraggiosamente e con successo il 16 agosto», dice fiero il jazzista, dal 2010 a capo dell’etichetta T k Music. «Purtroppo in Italia la cultura non è considerata così importante. In parte è colpa nostra: a differenza che in Francia, Paese molto avanti quanto a tutela dei lavoratori intermittenti dello spettacolo, da noi prima del Covid non si era mai parlato molto di questa categoria, mezzo milione di persone che ora se la passano male. Non serve assistenza, ma protezione». Parola di chi durante il lockdown si è prodigato sui social con live streaming, video, playlist, consigli di libri e album, ricevendo anche i saluti di Peter Gabriel. Alla base sempre l’amore per note e melodie, oltre che per la natura: risale allo scorso settembre una performance che ha visto Fresu suonare su un albero (a Perugia) come faceva da ragazzino. «Mio papà era un pastore, sarà per questo che quando suono in un bosco o con i piedi nella terra trovo la mia dimensione più intima».
Il richiamo della natura «Sono figlio di un pastore Nei boschi o con i piedi nella terra trovo la mia dimensione più intima»