Beethoven, passione senza fine
Il francese è solista con la Kammerorchester di Basilea diretta da Holliger
«Quest’anno i festeggiamenti per i 250 anni dalla sua nascita avrebbero dovuto rendere Beethoven ancor più popolare, ma ho la speranza che comunque, nonostante la pandemia, qualcuno abbia ascoltato per la prima volta in vita sua la quinta sinfonia o il concerto per violino». Non fosse ancora capitato, Renaud Capuçon regala stasera un’ulteriore possibilità: ospite d’onore allo Stresa Festival, il violinista transalpino interpreterà il concerto accompagnato da Heinz Holliger e la Kammerorchester Basel, formazione che ha ampiamente dimostrato di padroneggiare lo stile beethoveniano con la rapinosa registrazione delle Nove sinfonie dirette da Giovanni Antonini. Oggi però si cimenterà nella sinfonia «Incompiuta» di un grande estimatore del genio di Bonn, Schubert.
«Beethoven è un compositore magistrale, per questo è così conosciuto, così amato, così eseguito», riflette Capuçon, nato il 27 gennaio come Mozart, ma che ha fatto del Romanticismo e del primo Novecento i suoi ambiti privilegiati. «La sua musica ha una struttura molto robusta e lineare, mi verrebbe quasi da definirla “vertebrata”: tutto è dispiegato, tutto è di una chiarezza totale e ci permette di ritrovarci in ogni momento. Proprio questa scrittura monolitica e questa quadratura lo hanno in qualche modo politicizzato, avvicinandolo a Napoleone». Pur approfondendo alcuni aspetti tecnici, Capuçon preferisce lasciare più spazio possibile all’emozione quasi istintiva che questa musica suscita. «Anche a me piacerebbe rivivere l’emozione e la sorpresa che ho provato la prima volta che ho ascoltato il concerto per violino; purtroppo l’ho suonato decine e decine di volte, addirittura è stato il primo concerto che ho eseguito con l’orchestra», sorride, ripensando anche alle tante altre, da quella con Harding e i Berliner Philharmoniker alla tournée con Chailly e la Filarmonica della Scala. Sorride soprattutto perché in realtà «davanti alla sua musica si fa la stessa esperienza di chi si mette davanti ai quadri di Monet o Picasso: puoi osservarli centinaia di volte ma non ti annoi mai perché non puoi mai dire di aver visto tutto, c’è sempre qualche nuovo particolare che si rivela, un’armonia di colori, una proporzione di forme o un legame di oggetti di cui non ci si era ancora accorti».
Da tale visione deriva un modo personale e ben preciso di approcciare il concerto. «Davanti a capolavori come questo è inutile pretendere di dire una parola definitiva, è presuntuoso pensare di offrire l’interpretazione perfetta; quando l’ho inciso non ho avuto questa pretesa, sarei stato un folle; non cercavo neppure di realizzare la registrazione del secolo, perché se l’obiettivo era il confronto con le decine di splendidi dischi esistenti avrei dovuto aspettare almeno vent’anni per ottenere il livello necessario. Quello che ho voluto fare, e che faccio ogni volta che lo suono, è semplicemente lasciarmi trasportare dall’amore che provo per questo concerto, cercando di servirlo per esaltarne tutta la bellezza».