Corriere della Sera (Bergamo)

Caravaggio, il saper vivere e l’arte del consenso

- Daniela Morandi

Da febbraio a luglio è stato nell’isola thailandes­e di Koh Phangan, dove vive la sua famiglia. Un lockdown lontano dall’Italia, traducendo «1984», che «parla a questo tempo, mettendo in discussion­e l’idea di libertà», dice, e due saggi di Henry David Thoreau. Tornato nella piccola casa romana si è sentito soffocare dai libri. «Ormai hanno preso tutto lo spazio», commenta Tommaso Pincio, alias Marco Colapietro. Mentre scriveva «Il dono di saper vivere», edito da Einaudi e tra i finalisti del Premio nazionale di narrativa Bergamo, gli è ricapitato sottomano «La nausea» di Sartre. Credeva di averne perso la copia di gioventù, ritrovata nella libreria di casa dei suoi. «I libri hanno una vita strana — dice lo scrittore, intervista­to domani alle 18 da Maria Tosca Finazzi, in diretta Instagram e sui social del premio —. Lo immaginavo finito in un cassonetto, invece è in Thailandia. L’ho fotografat­o e lasciato alla sua vita solitaria». Mentre in un cestino, vicino alle bancarelle dell’usato dalle parti della stazione Termini, Pincio scovò il libro «Tutta la pittura di Caravaggio». Attorno al pittore ruota il romanzo sull’arte del saper vivere, tra la vicenda di un ex gallerista in carcere, la vita di Merisi e quella dell’autore.

Come nasce il libro? «Quando vidi il saggio di pittura buttato in un sacco pensai a un segno: dovevo gettare il mio romanzo, dalla scrittura faticosa. È nato come il seguito di Cinacittà, che per protagonis­ta ha un ex gallerista in carcere, ma non volevo un sequel. La cella di questo libro è simbolica: indica il luogo di reclusione ideale. Caravaggio spesse volte è stato recluso. La sua è stata una vita prigionier­a dei demoni personali. Il titolo e l’idea nascono da un testo di Bernard Berenson e dalla biografia di Merisi scritta da Giovanni Baglione, secondo cui a Caravaggio mancava il dono di saper vivere. Mi interessav­a il contrasto tra la grandezza d’artista e l’incapacità di saper vivere che, nel mio caso, sta nell’incapacità del sapersi vendere. Ma è giusto vendersi o perseguire la propria strada? Sono interrogat­ivi che nel libro pongo, perché il tema del nostro tempo è l’aver consenso».

Da ex gallerista, cosa la attrae di Caravaggio?

«L’incontro più affascinan­te con lui fu l’aver lavorato per quasi vent’anni in una galleria d’arte in via Pallacorda, dove si consumò l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, per cui il pittore fu accusato. Poi me lo sono sempre trovato tra i piedi, ma è facile per chi vive nel cuore di Roma. Mi interessav­a capire come era visto. Nel corso dei decenni Caravaggio è in ascesa, perché la sua pittura arriva dritto al cuore. Si ha la sensazione che il quadro sconfini nel reale. È un mito del nostro tempo, popolare al pari di un attore o rockstar».

Caravaggio come Kurt Cobain, a cui dedicò «Un amore dell’altro mondo»?

«Sono simili. Entrambi avevano sarcasmo e un modo dissonante di unire le cose. Ma Caravaggio assomiglia anche a Wharol per sensibilit­à punk».

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L’autore Tommaso Pincio, alias Marco Colapietro, è uno dei finalisti del Premio nazionale di narrativa Bergamo

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