La messa e il falò nel culto della croce
Attiva in città dal 1993, la comunità si ritrova ogni domenica in via Ippocrate, in un edificio nel parco dell’ex ospedale Pini Cinquecento fedeli che affiancano le preghiere a feste religiose
Tra le 19 chiese cristiane di Milano quella copta eritrea è la più antica e la più giovane allo stesso tempo. La più antica perché la religione copta nasce in Egitto nel I secolo dopo Cristo e si diffonde in Etiopia all’epoca di Costantino. La più giovane perché, come comunità autonoma legata al Patriarcato di Asmara, è stata riconosciuta solo nel 1993, due anni dopo l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. A Milano la comunità conta circa 500 fedeli che, dal 2007, si riuniscono la domenica per la messa in via Ippocrate, nella chiesa del parco dell’ex ospedale Pini. Un edificio in cemento armato e vetro, dato in comodato d’uso dall’Azienda Ospedaliera Niguarda Cà Granda. Capo spirituale è padre Gide Tesfay, un giovane sacerdote consacrato quattro anni fa. Accanto a lui, padre Abraham Hagos, Presidente del consiglio pastorale e responsabile dei rapporti con le istituzioni cittadine.
«Prima di ottenere una chiesa tutta per noi, per quasi 15 anni siamo andati a pregare nella Parrocchia del Buon Pastore in Conca del Naviglio che ci ospitava tre giorni a settimana», racconta Hagos. «Oggi abbiamo un luogo per pregare e, nelle occasioni speciali, fare festa e pranzare insieme sui tavoli sotto agli alberi». L’ultima domenica di settembre è il giorno del Meskel, la festa della Santa Croce che, con quella della Natività di Maria (la seconda domenica di maggio) è la ricorrenza più importante dell’anno liturgico copto. Il Meskel celebra il ritrovamento miracoloso della croce di Cristo da parte dell’imperatrice Elena, madre di Costantino. «Il culto della croce è così importante che alcuni fedeli se la fanno tatuare sul polso». Dal cancello arrivano gruppi di donne e ragazze cariche di borsoni. Alcuni contengono le bibite e le pietanze per il pranzo, altre gli abiti lunghi e colorati della festa, da infilare sopra i vestiti prima di togliere le scarpe ed entrare in chiesa, avvolte nel lungo velo bianco rituale, simbolo di purezza, che copre interamente il corpo e la testa. Di bianco sono vestiti anche bambini e i giovani, mentre i più anziani sfoggiano eleganti abiti scuri di taglio occidentale. In chiesa i fedeli si dividono: le donne e i bambini da una parte (e sono il gruppo più numeroso) gli uomini dall’altro. Al centro, l’altare, nascosto alla vista da una grande edicola ricoperta di immagini sacre. Dall’interno di questa zona più sacra giungono le voci di tre sacerdoti che guidano le preghiere in lingua tigrinya, mentre i fedeli rispondono e si inginocchiano portando il capo a terra. All’esterno, si preparano i tavoli per il pranzo, con le pile di injera, i pani rotondi soffici e spugnosi, e si sistema la catasta di legna ricoperta di teli bianchi per il rito della Damerà, il falò sacro che chiude questa messa speciale: è il culmine della festa. I giovani suonano i tamburi e danzano, le donne lanciano al cielo lo zaghroutah (il canto simile a un ululato, espressione di gioia) , tutti compiono i tre giri rituali attorno al falò acceso. Alla fine, ogni famiglia torna a casa con un pezzo di legno bruciato, reliquia benedetta e ricordo della giornata.